Attacco alla scienza

La manifestazione “Stand up for science” del 7 marzo davanti al Lincoln Memorial di Washington, contro i tagli ai fondi per le agenzie federali e agli istituti di ricerca medica

Un’ideologia regressiva attacca la ricerca scientifica, soprattutto quella sul clima

di GIANFRANCO BOLOGNA

In questo drammatico periodo attuale segnato da un collasso della ragione e da una disumanità che pensavamo di non dover più vedere — come accade oggi a Gaza — assistiamo a un attacco politico senza precedenti alla scienza, in particolare a quella della sostenibilità. Quello che doveva essere il decennio dell’azione concreta per raggiungere gli Obiettivi dell’Agenda 2030 sta subendo una brusca frenata. Un esempio clamoroso è rappresentato dagli Stati Uniti. Donald Trump ha apertamente attaccato il mondo accademico e scientifico del Paese — tra i più avanzati al mondo, basti pensare ai 150 premi Nobel di Harvard. Con ordini esecutivi ha tagliato fondi alla ricerca, indicato ambiti da abbandonare (come gli studi sul cambiamento climatico e sull’ambiente), messo in discussione la scienza medica e i vaccini, promuovendo al loro posto una visione ideologica, il cosiddetto “MAGA Science”. Ha ritirato gli USA dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, bloccato la partecipazione dei climatologi governativi ai lavori dell’IPCC, e autorizzato nuove trivellazioni per continuare a puntare sui combustibili fossili.

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Situazioni analoghe si stanno verificando anche altrove — basti citare il caso emblematico della presidenza di Javier Milei in Argentina — mentre la nuova Unione Europea, all’indomani delle ultime elezioni, appare sempre più ostaggio delle campagne ostili al Green Deal, che stanno rallentando iniziative cruciali per la transizione sostenibile. È il trionfo di una profonda arretratezza politica e culturale su un tema essenziale per il futuro dell’umanità: come rendere sostenibile la nostra presenza sul Pianeta. Una visione miope, che ignora l’evidenza scientifica ormai consolidata: il nostro benessere fisico e mentale dipende in modo diretto dalla salute e dalla vitalità degli ecosistemi naturali.

L’Homo sapiens è il risultato della straordinaria storia della vita sulla Terra: una specie che dipende dalle condizioni fisiche, geologiche, climatiche, ecologiche e biologiche che ne hanno reso possibile l’evoluzione. Siamo profondamente interconnessi con tutte le forme di vita, dai primi microrganismi comparsi oltre 3,8 miliardi di anni fa alla ricca biodiversità dell’Olocene, l’epoca geologica che condividiamo oggi con milioni di altre specie. L’essere umano ne è parte integrante. La cultura dell’Homo economicus ci ha illuso di essere al di sopra e al di fuori della natura. Già nel 1978 il poliedrico scienziato francese Joël de Rosnay, nel libro “Il macroscopio”, proponeva la necessità di un nuovo “strumento” per comprendere l’infinitamente complesso, così come il microscopio e il telescopio avevano aperto all’infinitamente piccolo e grande. Questo strumento non è tecnologico, ma mentale: la nostra intelligenza e logica, ancora impreparate ad affrontare la complessità della vita e dei sistemi sociali perché la molteplicità di elementi, interazioni e combinazioni ci disorienta.

Per questo abbiamo bisogno di un macroscopio (dal greco makrós, grande, e skopein, osservare): uno strumento simbolico, fatto di metodi e approcci multidisciplinari, capace di aiutarci a cogliere l’incredibile complessità del mondo in cui viviamo. Il macroscopio rappresenta una nuova forma di osservare, comprendere e agire. La cultura dovrebbe guidarci nel suo utilizzo, per ripensare il nostro rapporto con la natura, la società e il futuro della nostra specie, elaborando nuove regole di comportamento, educazione e azione. La politica, oggi più che mai, dovrebbe riconoscere il valore di questo strumento e imparare a utilizzarlo — prima che sia troppo tardi.

L’articolo è tratto dalle pagine di QualEnergia di luglio/agosto 2025

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