L’uomo ha sempre usato la lotta come mezzo di sopravvivenza. Col tempo, però, quel gesto primordiale si è trasformato in qualcosa di più profondo: una disciplina, una filosofia, una via per ritrovare sé stessi. Eppure, la lotta è diventata anche una forma di intrattenimento: basti pensare ai combattimenti nei colossei romani, ai tornei medievali, fino ad arrivare agli incontri clandestini di boxe di inizio novecento e ai tornei nelle gabbie dell’UFC di oggi giorno. Nel cinema, il combattimento è stato raccontato in mille modi diversi: come spettacolo, come catarsi, come valvola di sfogo per esorcizzare le proprie paure (un po’ come l’horror, ma con la differenza che ai mostri vorresti tirare dei calci volanti, manco fossi Van Damme).
Ma ci sono film che scelgono un’altra strada: dove la violenza lascia spazio all’umanità, e la lotta diventa metafora di redenzione. In questo articolo non parleremo quindi dei classici di Bruce Lee o Jackie Chan, né banalmente di Rocky, ma andremo alla riscoperta di tre opere poco conosciute al grande pubblico. Film che vanno oltre la semplice spettacolarizzazione delle tecniche di difesa, e che mettono al centro un percorso di rinascita e rivalsa personale.
1. Undisputed (2001)

Gli inizi degli anni Duemila non furono facili per Walter Hill, reduce da diversi flop che stavano affossando la sua carriera, in particolare Wild Bill(1995) e Geronimo(1993): fatevi un favore e recuperateli. Con Undisputed, però, il regista ritrova la luce. Ambientato in un carcere di massima sicurezza, il film racconta lo scontro tra due campioni agli opposti, costretti a combattere dietro le sbarre ma uniti dalla stessa voglia di riscatto.
Ispirato in parte alla figura di Mike Tyson, Undisputed è un prison movie classico, ma anche un racconto morale sulla lotta e la dignità. I due protagonisti, gli ottimi Ving Rhames e Wesley Snipes, non sono soltanto il cuore del film, ma il perno di un microcosmo che prende vita tra le mura della prigione, dove ogni personaggio, anche il secondario, ha un ruolo preciso. Sono l’antitesi dell’eroe alla Rocky: veri antieroi alla maniera di Walter Hill, ma capaci comunque di suscitare empatia. Hill dirige con ritmo e passione una storia di lotta e redenzione che ha lo spirito di una canzone hip-hop: un film “vecchia scuola”, potente e sincero, che omaggia il mondo della boxe e la sua filosofia, oltre a offrire uno spaccato realistico del mondo carcerario americano. P.S. Per cortesia non prendete in considerazione i sequel con Michael Jai White e Scott Adkins. Non hanno nulla a che vedere con l’originale di Hill, oltre a essere piuttosto mediocri.
2. Redbelt (2008)

David Mamet, grandissimo autore e vincitore del Premio Pulitzer, realizza un dramma teatrale che si muove quasi su un tatami, tra intrighi economici e tradimenti. Mamet usa la disciplina del jujitsu come metafora morale: la purezza contro la corruzione, l’onore contro un mondo di menzogna e disonestà. Il protagonista, interpretato da un intensissimo Chiwetel Ejiofor (attore troppo sottovalutato), vive seguendo rigidamente la ‘via del maestro’, rifiutando qualsiasi forma di compromesso. La sua filosofia è racchiusa nel rituale delle tre biglie, due bianche e una nera, che assegna casualmente un handicap durante l’allenamento, costringendo a combattere ‘senza’ un arto.
È un esercizio simbolico che ricerca che la vita, come il combattimento, sia instabile, e che la vera forza risiede nella calma e nel trovare sempre una via d’uscita. È ciò che accade al protagonista, costretto a misurarsi in un mondo corrotto, dove i combattimenti sono truccati e i valori vengono costantemente messi alla prova. Un personaggio romantico, fuori dal tempo, che ricorda quello interpretato da Forest Whitaker in Ghost Dog (1999) di Jim Jarmusch: un samurai moderno che vive ancora seguendo un proprio codice morale. Nel magnifico finale, il combattimento diventa una catarsi collettiva: il pubblico si ferma, in silenzio, rapito dalla purezza del gesto. Non conta più chi vince, ma la fedeltà a un principio e l’integrità di chi combatte solo per restare fedele a sé stesso. Redbelt è un film simbolico, doloroso e umano, che parla di lealtà, disciplina e del coraggio di non piegarsi mai alla corruzione del mondo.
3. Throw Down (2004)

La filmografia di Johnnie To è tra le più vaste e variegate del panorama cinematografico hongkonghese. Il regista ha saputo affrontare tutti i generi, realizzando opere uniche come i noir PTU (2003) e Vendicami (2009), il wuxia pian The Heroic Trio (1993) e il dittico crime Election (2005) e Election 2 (2006). Throw Down rimane, però, uno dei suoi capolavori ma poco considerato. Uscito nel 2004, il film racconta perfettamente lo stato d’animo della generazione che ha vissuto il post-Handover del 1997, rendendo allo stesso tempo omaggio al cinema di Akira Kurosawa, in particolare al suo primo film Sanshiro Sugata (1943). To racconta la storia di tre protagonisti- Bo, Tony e Mona-che vivono in una Hong Kong ferita, sospesa tra sogni infranti e desiderio di rinascita.
Qui lo judo diventa la chiave simbolica del film: cadere e rialzarsi, sempre. Il film assume inizialmente i tratti di un melodramma (particolarità che richiama molto il classico di Vincente Minnelli Spettacolo di varietà), intriso di un’estetica e di una poetica che si rifanno al cinema francese di Jacques Demy. Le scene di combattimento assumono la forma di una danza lirica, toccando livelli di delicatezza che, nei momenti più “ordinari”, si avvicinano al cinema della nouvelle vague. Per questo Throw Down è una ballata dolce e malinconica, un racconto profondamente umano che, attraverso lo judo, parla della capacità di un popolo, di ogni persona, di rialzarsi dopo ogni caduta.
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