“I rischi dell’autonomia differenziata”. Intervista a Giovanni Maria Flick

Forestale regione autonoma

Dopo la riforma del 2001, il disegno di legge presentato da Calderoli rischia di aumentare il caos costituzionale e di ridurre il Parlamento a notaio per le contrattazioni fra Stato e le Regioni 

Il disegno di legge sull’Autonomia differenziata, voluto dal senatore leghista Calderoli, sta entrando nel dibattito pubblico, coinvolgendo la società civile. Per i suoi sostenitori si tratta di dare seguito all’art. 116 della Costituzione introdotto con la riforma del 2001. Chi lo contrasta ritiene invece che metterebbe in discussione i principi fondamentali della Costituzione. Lo abbiamo quindi studiato e analizzato con un autorevole costituzionalista, il professore Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale.   

Quali sono i rischi che l’introduzione della autonomia regionale differenziata e un maggiore potere delle regioni possono crearsi rispetto all’uguaglianza di diritti e doveri dei cittadini prevista dalla Costituzione? 

Non sono accettabili  il metodo e il merito della proposta sulla riforma del rapporto tra lo Stato – espressione di una Repubblica una e indivisibile –  e le singole Regioni al fine di valorizzarne ancora di più l’autonomia. Essi  pongono una serie di interrogativi  pesanti, soprattutto sulla riduzione dei compiti e delle responsabilità del  Parlamento e sulla sostituzione  del modello solidale di regionalismo delineato dalla Costituzione con un modello competitivo.  

La nostra è una repubblica parlamentare. Il momento centrale della dinamica costituzionale per l’esercizio della sovranità popolare è rappresentato dal  Parlamento. Ridurre il  Parlamento a un mero compito notarile, la presa d’atto  di un “contratto” tra lo Stato e ogni singola Regione, porta a una contraddizione costituzionale. Essa  è già presente in nuce nell’art. 116 riformato nel 2001, con cui si è avviato il processo  per una più consistente autonomia regionale.  

Il Titolo V della Costituzione  in precedenza prevedeva che il potere legislativo spettasse allo Stato, salvo alcune specifiche eccezioni demandate alla legislazione regionale. L’infelice e maldestra riforma del 2001 ha cambiato le carte in tavola. Poche specifiche e analitiche competenze sono riservate esclusivamente allo Stato; molte (la maggioranza)  sono condivise tra lo Stato e le  Regioni attraverso una  loro attività legislativa autonoma, senza alcuna differenza fra le materie che ogni regione chiede di trasferire con il disegno di legge ordinari in discussione.  

Si è creato un contenzioso costituzionale consistente, anche perché non sono state previste norme transitorie di attuazione e non si è tenuto conto del fatto che nella legge costituzionale del 2001 e nel disegno di legge in discussione le tematiche in questione sono trasversali in parecchi settori come giustizia, viabilità, sanità, energia, ambiente. Si è più volte verificato un conflitto tra  Stato e  Regioni.  L’eccesso di autonomia regionale confligge con il principio di leale collaborazione che la Corte costituzionale ha più volte  dichiarato necessario rispettare: quando si fronteggiano governi statali e regionali costituiti da forze politiche avversarie, è sempre difficile raggiungerla. 

L’art.116 Cost. prevede comunque la possibilità di incrementare competenze per le singole  Regioni, ma in campi ben specifici e determinati: giustizia di pace, istruzione, tutela dell’ambiente. Questo non significa aprire la via per una modifica e un trasferimento radicali in blocco di tutta la legislazione a singole regioni. 

Si rischia di dare vita a una notevole disparità di disponibilità finanziarie tra le regioni. È diverso consentire che i residui fiscali di tassazione regionale vengano immessi nel sistema di ripartizione fiscale generale o rimangano alla singola regione rischiando di cancellare il vincolo di solidarietà tra  Stato e Regioni, fondamentale nel nostro sistema costituzionale.  

La Costituzione è ancora il punto di riferimento anche di fronte a questa riforma? 

La biodiversità umana è tutelata oggi dall’articolo 9 della Costituzione con la sua recente riforma. I diritti inviolabili legati a doveri inderogabili che favoriscono la formazione della personalità (art. 2) sono la premessa logica della eguaglianza, della diversità e della pari dignità sociale di tutti (art. 3).  

L’art. 9 sulla cultura e l’ambiente – soprattutto nella sua recente riforma del 2022 – ricorda che bisogna guardare al passato per costruire il futuro tenendo conto degli errori come degli aspetti positivi del primo. L’anello di congiunzione tra passato e futuro è la cultura. L’art. 9 riformato indica che l’ecosistema, il suo equilibrio e la biodiversità (anche quella umana e non solo delle specie animali e vegetali) devono essere difesi anche e soprattutto nell’interesse delle future generazioni.  

L’autonomia differenziata, per come è proposta, rischia di introdurre una frammentazione pericolosa rispetto ai temi della tutela ambientale; del monitoraggio e del controllo sull’adempimento degli impegni anche sovranazionali che la realtà unitaria dell’ambiente impone allo Stato nella sua unità e alle Regioni nell’esercizio delle rispettive competenze. 

La concezione unitaria dell’ambiente è essenziale per la tutela – ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione – dei diritti fondamentali e inviolabili, senza differenze territoriali fra le varie Regioni negli standard minimi dei livelli essenziali delle prestazioni (i LEP). 

Quell’eguaglianza non può essere assicurata semplicemente dalla “elencazione e definizione” dei LEP – come proposto dal disegno di legge in discussione in Parlamento – senza tener conto della effettività dei loro costi e della predeterminazione delle risorse nella legge di bilancio, per affrontare quei costi, nell’economia generale e unitaria del paese.  

In quale clima politico è maturata la riforma del Titolo V della Costituzione che, dal 2001, affida maggiori competenze alle Regioni? 

Alle prospettive separatiste avanzate a quel tempo dalla Lega la maggioranza formata dai partiti del centro-sinistra reagì con un maggiore decentramento di funzioni alle regioni nella riforma costituzionale del 2001. Già la legge ordinaria n. 59 del 1997 andava in quel verso, ma occorreva una base costituzionale per acquisire maggiore solidità.    

La riforma costituzionale fu varata da una maggioranza a scartamento ridotto, a fine legislatura, in tempi rapidi e quindi senza una adeguata ponderazione della portata. È mancato il tempo per mettere a punto una legge di attuazione: per cui – pressoché da subito – la risoluzione dei problemi insorgenti tra lo Stato e le Regioni è stata demandata alla Corte costituzionale.  

Cosa è cambiato?  

Di fatto è aumentata la confusione istituzionale con l’esplosione dei conflitti di competenze tra lo Stato e le Regioni: il culmine penso sia stato toccato nelle vicende del tempo della pandemia, che fanno tuttora discutere anche sotto il profilo giudiziario. 

L’articolo 5 della Costituzione dice ancora che: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali». In precedenza la competenza legislativa spettava in linea di massima allo Stato e alle Regioni erano solo delegati alcuni, pochi, specifici compiti legislativi. La riforma ha invece fissato, limitandole, le competenze esclusive della legislazione statale, ampliando al contrario le competenze concorrenti tra lo Stato e le Regioni. Così su moltissime materie allo Stato compete ora dettare i principi e il quadro generale, mentre alle Regioni spetta la declinazione locale, dettagliata, dello stesso quadro; senza peraltro un richiamo necessario all’interesse nazionale.  

Si altera però la distinzione tra Regioni a Statuto Speciale e Regioni a Statuto Ordinario, tuttora prevista dalla Costituzione. Le radici dello Statuto Speciale regionale – attribuito a Sicilia, Sardegna, Friuli Venezia-Giulia, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta – si fondano nelle particolarità delle situazioni di frontiera, ovvero nella storia delle aspirazioni separatiste (Sicilia), oppure delle crisi di povertà del nostro Paese (Sardegna). Altro e diverso problema è quello di valutare se e in quale misura sia ancora oggi giustificata tale distinzione. Desta perplessità il cosiddetto “regime differenziato” dei residui fiscali, a favore delle regioni con maggiori entrate. 

La trasformazione non ha inteso dare forma all’articolo 5 sull’autonomia e sul decentramento regionale? 

La norma costituzionale ha dato luogo – peraltro con molto ritardo – alla istituzione delle Regioni (1972). Ma occorre ricordare il capovolgimento – o quasi – della filosofia costituzionale originaria fondata sulla distinzione tra legislazione statale e regionale con la riforma.  

La modifica dell’articolo 116 che, ferma restando la configurazione delle Regioni a Statuto Speciale, ha previsto la possibilità di attribuire alle altre Regioni – con legge ordinaria – ulteriori competenze su altre materie, da parte dello Stato.   

Quanto è stato aggiunto ha creato problemi di interpretazione circa le effettive competenze sulle tante materie in gioco: è spettato alla Corte costituzionale cercare di dirimere i problemi. Cito qui  – ad esempio – il caso della materia ambientale, di sicuro interesse nazionale ma con rilevanti implicazioni locali.  

La riforma ha dunque dato la stura alle differenziazioni regionali, con conseguenze importanti per la vita dei cittadini italiani? 

Le regioni più attrezzate hanno già chiesto e concordato tutta una serie di attribuzioni, sino al trasferimento in blocco di alcune materie: più di quanto fosse nell’animo dei legislatori riformatori costituenti. Si è instaurata una sorta di trattativa permanente: non solo tra lo Stato e le Regioni, ma anche tra la singola Regione e lo Stato.  

In questo modo il Parlamento finisce per avere un ruolo semplicemente notarile di registrare ogni accordo raggiunto tra lo Stato e una Regione. Aumenta il distacco tra le Regioni più dotate di risorse e quelle meno, con evidenti, diversificati, riflessi sulla vita reale dei cittadini.  

Quali sono le tutele costituzionali che dovrebbero permanere, in ogni caso, in ambito sanitario e sociale? 

La riforma costituzionale del Titolo V ha inteso affrontare il problema con i LEP (Livelli Essenziali delle Prestazioni sociali) concernenti i diritti civili e sociali. Tali Livelli andavano e vanno – di per sé – garantiti, a ciascun cittadino su tutto il territorio nazionale.  

Ma la soluzione individuata non ha ancora trovato attuazione. E il problema è rimasto e resta. L’individuazione dei Livelli Essenziali – sia sanitari che sociali – spetta per legge allo Stato che in ciò non è riuscito, specie in ambito sociale.  

Sulla definizione dei Livelli Essenziali si fondano il contributo dello Stato alle finanze regionali e l’impiego delle risorse regionali allo scopo.  

Sui Livelli Essenziali, si è sviluppata gran parte della confusione istituzionale e della conflittualità esistente. Diritti sanitari e sociali avrebbero dovuto entrare in una categoria fissata dalla Stato con una propria legge: cosa mai avvenuta. Per tale ragione, una variegata definizione delle prestazioni essenziali è avvenuta solo per via legislativa regionale; o è stata affidata persino alle scelte governative e a quelle amministrative di  province e  comuni, singoli o aggregati.  I vuoti e gli scarti geografici sono risultati particolarmente evidenti nel tempo della pandemia.   

Il problema dell’autonomia vale solo per la salute?   

No. Le Regioni hanno vocazioni e coloriture politiche proprie determinate dall’elettorato. E questo, ovviamente, è giusto. Ma il sistema che si è ingenerato rischia di portare ad una deriva molto parziale, locale o localistica, indifferente alle dimensioni globali e nazionali, oltre che centrata su modelli aziendali, molto spinti per pretesa efficientistica e tecnologica che vanno ben al di là della problematica sanitaria. Penso al problema dell’ambiente; ma sono molti i temi e le materie la cui frammentazione a livello regionale desta preoccupazione. 

 In conclusione? 

Il “Disegno di Legge per l’autonomia differenziata delle Regioni” in attuazione dell’articolo costituzionale riformato è stato costruito senza alcuna valorizzazione della componente parlamentare: si tratta pur sempre di una legge di attuazione costituzionale, benché ordinaria. Il testo appare molto esiguo, schematico e pieno di termini da rispettare, anche per il Consiglio dei Ministri e per il Parlamento; sulla loro osservanza è lecito nutrire molti dubbi. Indica sostanzialmente un percorso lungo e piuttosto complicato, volutamente indefinito nei contenuti e nell’approdo.  

Il tema dei Livelli Essenziali resta perciò pure indefinito. Manca un raccordo con la legge di bilancio quindi con le risorse su cui si possa contare. Occorre ricordare che la garanzia di eguaglianza nella tutela e nell’attuazione dei diritti civili e sociali per tutti è fondata non tanto su una inesistente “gerarchia” fra essi, quanto sulla determinazione legislativa a monte – nella legge di bilancio – delle risorse economiche destinate alla concreta attuazione di quei diritti secondo le scelte predeterminate e i criteri di ripartizione legislativa. 

Le dimissioni di quattro componenti fra i più esperti della Commissione ministeriale nominata a tal fine, confermano la fragilità della proposta governativa all’esame del Parlamento e il suo contrasto con lo spirito e con la lettura della Costituzione. 

* Gli argomenti di questa intervista sono stati più volte e in più sedi affrontati, recentemente nelle interviste con G. Cavallari su Settimananews.it dell’8 maggio 2023 e con U. Montaguti sul numero di giugno 2023 della Rivista A.N.P.I “Resistenza e nuove resistenze”