
Dal 2000 a oggi il prezzo medio della benzina è raddoppiato. La soluzione non sono i bonus o la riduzione dell’accisa
Il caro carburante, ammesso che si trovino le risorse, non si risolve con qualche bonus e riducendo l’accisa. La benzina è arrivata a costare mediamente 1,986 euro al litro, il gasolio 1,911 in questo settembre ’23. L’accisa è poco più di 0,7 euro al litro dal 2012, prima valeva poco più di 0,5 dal 2000. Eppure il prezzo medio della benzina è aumentato da 1 euro al litro nel 2000, a 1,786 nel 2012 e quasi 2 euro di oggi, un raddoppio da inizio secolo.
Nel frattempo il reddito medio disponibile pro capite è persino diminuito: era 21.325 euro all’anno nel 1995, è 21.081 nel 2021 (Censis). Oggi, dopo un anno di inflazione all’8%, la situazione è peggiorata. Il carburante alla pompa è aumentato in egual misura per tutti, ricchi e poveri, mentre sono aumentate le disparità: il 10% più ricco possiede oltre 6 volte la ricchezza del 50% più povero dei nostri connazionali. Ma la ricchezza dei più ricchi è cresciuta in 20 anni del 7,6%, a fronte di una riduzione del 36,6% di quella della metà più povera degli italiani.
Così rinunciamo a cambiare auto. Ne acquistiamo un terzo di meno (1,4 milioni all’anno invece di oltre 2) perché costano sempre più care, soprattutto negli ultimi 15 anni: una utilitaria che costava 12 mila euro, nel 2022 ha sfiorato i 18 mila in media, inclusi sconti e incentivi governativi (dati UNRAE). Meglio tenersi la vecchia auto inquinante o rivenderla usata alle famiglie italiane che si rivolgono al mercato dell’usato, che sono ormai la maggioranza.
Tra le auto nuove, quelle elettriche, sono sotto il 4% del venduto. Attendiamo tutti il 2026, quando si prevede che le auto elettriche costeranno quanto quelle a combustione, ma si tratterà di un pareggio al rialzo: quelle elettriche costeranno meno di oggi, ma quelle a petrolio ancora di più. La parità tra elettrico e diesel è oggi già raggiunta per le auto più grandi (dal segmento D in su). Il problema non è dunque il motore elettrico o la batteria, bersaglio (insieme ai monopattini) dei populisti, il problema sono la distribuzione del reddito e il caro auto e benzina, troppo alti per la metà degli italiani.
E mentre i servizi di trasporto collettivi e pubblici (treni e autobus) faticano a riconquistare i passeggeri persi nei due anni di pandemia, anche i prezzi dei biglietti e degli abbonamenti sono cresciuti: il report Pendolaria di Legambiente ci informa che per una tratta da 30 chilometri dal 2011 ad oggi il costo del biglietto è aumentato del 35,3% in Lombardia, del 56,5 in Liguria, del 55,6% in Piemonte. Mentre le spese statali e Regionali per il trasporto pubblico in questi anni sono diminuite. Salvo gli investimenti previsti nei prossimi 3 anni dal PNRR, il servizio pubblico di trasporto è stato costretto, salvo eccezioni locali, alla marginalità.
La morale è che, pur possedendo più automobili di vent’anni fa (67 autovetture ogni 100 abitanti, 57 nel 2001), le usiamo sempre meno, come si deduce anche dai consumi di carburante: meno di 11 mila km all’anno per ogni auto, il 20% in meno dei tedeschi e spagnoli. A cosa rinunciamo, e in quanti e chi fa rinunce? Conosciamo i risultati di una interessante indagine svolta in Francia (“La dépendance aux carburants fossiles source de précarité, baromètre des mobilités du quotidien” del marzo 2022) promossa da Wimoov per la Fondation pour la nature e l’homme: il 28% del campione ha rinunciato negli ultimi 5 anni almeno una volta ad un lavoro a causa di spostamenti quotidiani troppo onerosi, mentre il 23% degli studenti ha rinunciato ad attività di piacere e il 42% degli anziani ha rinunciato ad una cura. Si stima che in Francia gli abitanti in condizione di precarietà legata alla mobilità e trasporti assommano a 13,3 milioni di abitanti con più di 18 anni (27,6% della popolazione): 4,3 milioni sono immobili, non possiedono veicoli né sono abbonati ad alcun servizio di trasporto. E in Italia?