
Soprattutto a livello locale e decentrato il nostro Paese fatica a garantire un totale recepimento degli obblighi normativi come evidenziato nell’ultimo rapporto dell’Osservatorio Appalti Verdi di Legambiente e Fondazione Ecosistemi. Proposte per far sì che il Gpp diventi una priorità per le stazioni appaltanti
di Gianluca Carrabs* e Andrea Filipinpi**
Con l’espressione Green public procurement ci si riferisce in modo ampio all’utilizzo della leva ambientale, come declinazione di un più ampio contenuto “sociale” potenzialmente insito in ogni ordinativo della Pubblica amministrazione (Pa), nell’ambito dei contratti pubblici, che nella prassi si sostanzia nell’introduzione di considerazioni ambientali – e, appunto, sociali – nelle procedure di gara.
La ragione principale che porta a dare rilevanza a tali aspetti nei contratti pubblici è da rinvenire nella consapevolezza della forte capacità della domanda pubblica di stimolare un modello di produzione pro-ambientale/sociale o eco-compatibile. Tale capacità è da ricondursi, ex plurimis, a tre fattori sui quali è opportuno soffermarsi:
- l’ampiezza della domanda pubblica, essendo i volumi di spesa della Pa per acquisti di beni, servizi e lavori in Europa mediamente pari al 18% del Pil dell’Eurozona. Le scelte di acquisto pubbliche producono dunque – ex se – ripercussioni rilevantissime per l’ambiente;
- la capacità di spesa dell’Amministrazione pubblica, che volendolo le può consentire di sostenere gli eventuali maggiori costi derivanti da tecnologie più moderne e metodi di produzione eco-compatibili;
- uno stimolo al miglioramento per l’operatore economico privato, che altrimenti non affronterebbe i maggiori costi che la progettazione e la produzione di prodotti eco-compatibili comportano, se non potesse contare su un soggetto che offra la garanzia di poter acquistare notevoli quantitativi di prodotti a un prezzo, almeno in una fase iniziale, verosimilmente maggiore di quello reperibile sul mercato non eco-compatibile.
La pubblica amministrazione, quindi, attraverso le proprie commesse è in grado di determinare un effetto positivo sulla società e sull’ambiente.

A livello normativo va constatato che malgrado queste evidenti considerazioni le prime direttive europee, dalla 305/1971 CEE fino alle 38/1993 CEE, non prevedevano l’utilizzo di considerazioni ambientali nell’aggiudicazione di contratti pubblici. La prima disciplina europea dei contratti pubblici era infatti improntata a logiche puramente mercantilistiche, volte al solo obiettivo di creare un mercato il più concorrenziale possibile. La disciplina europea si innestava poi su discipline nazionali ispirate, anch’esse, a principi di massima economicità della spesa, avulse da qualsiasi considerazione sociale, etica o ambientale.
Lo sviluppo della giurisprudenza Ue sul tema
È stata la giurisprudenza comunitaria ad aprire progressivamente all’utilizzo di criteri non strettamente economici nell’affidamento dei contratti pubblici. Ciò avvenne inizialmente con la storica sentenza della Corte di Giustizia dell’Ue “The Netherlands/Beentjes”, in cui nella scelta del contrante uno dei criteri era l’utilizzo di disoccupati di lunga durata per l’esecuzione dei lavori. La Corte di Giustizia per la prima volta ammise in quell’occasione (siamo nel 1989) – pur delimitandola entro alcuni paletti (rispetto della par condicio e non discriminazione) – la possibilità di utilizzare un criterio di tipo sociale accanto a criteri strettamente economicistici e di massimo ribasso del prezzo.
L’idea che le commesse pubbliche possano essere utilizzate per promuovere anche finalità sociali ed ambientali si fa strada nel corso di tutti gli anni ’90, e nel 2002, con la nota sentenza Concordia Bus contro la Città di Helsinki (“Concordia Bus Finland Oy Ab C. Helsingin kaupunki”), la Corte di Giustizia esplicitamente ammette la legittimità dell’utilizzo di un criterio di aggiudicazione “pro-ambientale”, così legittimando giuridicamente la scelta del Comune di Helsinki che, nel bandire un bando per il servizio di trasporto urbano, aveva previsto il criterio della bassa emissione dei bus da adibire al servizio.
Al 2003 risale invece un’altra importante decisione, nota come sentenza “EVN AG contro la Repubblica Austriaca”. In questo caso la Corte di Giustizia esplicita la legittimità della clausola del bando che prevedeva, per la fornitura di energia elettrica, che una certa percentuale (45%) provenisse necessariamente da fonti rinnovabili. In tale decisione la Corte ha avuto altresì modo di precisare che l’utilizzo del criterio ambientale è legittimo anche allorquando possa determinare un aggravio economico del prezzo finale di fornitura, avendo l’ambiente un valore teleologico superiore rispetto a una mera determinazione economica di prezzo.
L’utilizzo di criteri ambientali e sociali

Parallelamente alla giurisprudenza anche la politica euro-unitaria ha iniziato a recepire tali principi, dapprima con atti di soft-law e poi in sede normativa nelle successive direttive in materia di appalti. Nel 1996, nel libro verde Gli appalti pubblici nell’Unione Europea: alcuni spunti per il futuro, la Commissione per la prima volta riconosce che “gli acquisti pubblici possono effettivamente costituire un forte mezzo di orientamento per l’azione degli operatori economici”. Nel successivo libro bianco del 1998 su Gli appalti pubblici nell’Unione Europea, ancora la Commissione sottolinea la maturata consapevolezza di dover coniugare la politica degli appalti con la tutela dell’ambiente (capitolo 4.3) e con le politiche sociali (4.4).
Alla pubblicazione dei due libri fece seguito una comunicazione interpretativa della Commissione dal titolo “Il Diritto comunitario degli appalti pubblici e la possibilità di integrare considerazioni di carattere ambientale negli appalti pubblici”, che prospettava la possibilità di introdurre concretamente considerazioni di politica ambientale, così come di politica sociale, nelle varie fasi della procedura di aggiudicazione dell’appalto.
A questo punto la strada è aperta e le direttive appalti del 2004 introducono così la possibilità normativa di utilizzare criteri ambientali e sociali nella regolazione dei contratti pubblici. È nota del resto, in tal senso, la qualificazione funzionale dei contratti pubblici operata in relazione all’evoluzione normativa della causa degli stessi: dalla concezione “unipolare”, limitata elle esigenze contabilistiche e di minor prezzo nell’aggiudicazione degli appalti, a quella bipolare, che alla prima ha affiancato il perseguimento dell’interesse pro-concorrenziale e alla libera circolazione; a quella, infine, multipolare, mediante la quale l’arricchimento funzionale della disciplina assegna al contratto anche il ruolo di strumento di politiche sociali e ambientali (soprattutto per effetto del considerando 2 della Direttiva 2014/24/UE).
Il Codice degli Appalti in Italia
Anche la disciplina italiana contribuisce, in attuazione delle direttive Ue, a delineare l’utilizzo della leva ambientale e sociale nelle procedure a evidenza pubblica. L’art. 57 del nuovo Codice degli Appalti (D. Lgs. n. 36/2023) prevede oggi che per gli affidamenti dei contratti di appalto i bandi di gara, gli avvisi e gli inviti, riportino specifiche clausole sociali con le quali siano richieste misure, “come requisiti necessari dell’offerta”, volte a garantire le pari opportunità generazionali, di genere, di inclusione lavorativa per le persone con disabilità e svantaggiate e la stabilità occupazionale del personale impiegato. È dunque onere delle stazioni appaltanti richiedere misure specifiche finalizzate al rendere concreta l’applicazione della clausole sociali. E tale onere si deve concretizzare, quanto alla stabilità occupazionale (l’obiettivo indubbiamente più rilevante tra quelli citati dall’art. 57, c. 1) nell’inserire una clausola di riassorbimento del personale che richieda ai concorrenti di allegare alla documentazione di gara un progetto di riassorbimento, comunque denominato, atto ad illustrare le concrete modalità di applicazione della clausola sociale, con particolare riferimento al numero dei lavoratori che ne beneficeranno e alla relativa proposta contrattuale (inquadramento e trattamento economico).
Gli altri obiettivi dell’art. 57, c. 1, invece, si sostanziano nella doverosa acquisizione da parte della stazione appaltante di rapporti sulla situazione del personale, della relazione di genere sulla situazione del personale maschile e femminile, nella dichiarazione di regolarità al diritto al lavoro delle persone con disabilità, nell’inserimento di clausole di premialità negli atti di gara e di percentuali minime rivolte alle assunzioni di giovani.
L’altro versante cui l’art. 57 fa riferimento è invece quello squisitamente ambientale. Le considerazioni ambientali nel vigente Codice degli Appalti sono in realtà molteplici e trasversali, distribuendosi – in base a quanto previsto dai pertinenti decreti ministeriali attuativi – in fasi anche molto diverse della procedura di gara, quali:
- la determinazione dell’oggetto del contratto (what to buy) e l’individuazione delle specifiche tecniche;
- l’individuazione dei soggetti ammessi a partecipare alla gara (requisiti di ammissione);
- la definizione dei criteri di valutazione delle offerte e nell’aggiudicazione.
Il comma 2 dell’art. 57 prevede che “Le stazioni appaltanti e gli enti concedenti contribuiscono al conseguimento degli obiettivi ambientali […] attraverso l’inserimento, nella documentazione progettuale e di gara, almeno delle specifiche tecniche e delle clausole contrattuali contenute nei criteri ambientali minimi […]. Tali criteri, in particolare quelli premianti, sono tenuti in considerazione anche ai fini della stesura dei documenti di gara per l’applicazione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ai sensi dell’articolo 108, commi 4 e 5. Le stazioni appaltanti valorizzano economicamente le procedure di affidamento di appalti e concessioni conformi ai criteri ambientali minimi […]”.
I criteri ambientali minimi (Cam) dunque vanno rintracciati, di volta in volta, nei decreti ministeriali attuativi che disciplinano lo specifico servizio o comparto merceologico, e possono avere le sembianze di criteri di selezione dei candidati, di specifiche tecniche da prevedere obbligatoriamente all’interno del capitolato, di clausole contrattuali da prevedere obbligatoriamente all’interno di uno schema di prescrizioni esecutive, di criteri premianti, ovvero di elementi di valutazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Ai principi e alle norme già citate si è poi affiancato il principio di “non arrecare danno significativo” all’ambiente, contribuendo a delineare ulteriormente il quadro delle misure che contribuiscono a livello europeo all’utilizzo della leva ambientale nei contratti pubblici. L’utilizzo di tale principio ha rappresentato uno strumento per vincolare il finanziamento dei progetti sotto l’ombrello del Pnrr alla verifica del rispetto di alcuni parametri ambientali, definiti dal Regolamento Ue sulla Tassonomia (Reg. n. 852/2020/UE). Si parla di tassonomia delle attività economiche sostenibili per indicare una classificazione delle attività sulla base del loro impatto su sei obiettivi ambientali. In particolare, in base all’art. 17 del Regolamento Tassonomia, si considera che un’attività economica arrechi un danno significativo:
- alla mitigazione dei cambiamenti climatici;
- all’adattamento ai cambiamenti climatici;
- all’uso sostenibile e alla protezione delle acque e delle risorse marine;
- all’economia circolare, compresi la prevenzione e il riciclaggio dei rifiuti;
- alla prevenzione e alla riduzione dell’inquinamento;
- alla protezione e al ripristino della biodiversità e degli ecosistemi.
Il recepimento del Gpp in Italia
L’Italia purtroppo fatica, soprattutto a livello locale e decentrato, a garantire un totale recepimento degli obblighi normativi in materia di Green public procurement. Se da una parte le Amministrazioni centrali – anche grazie al contributo di Consip e delle centrali di acquisto nazionale – sostengono da anni programmi di Gpp su larga scala, dall’altra parte, il rapporto presentato nel 2024 dall’Osservatorio Appalti Verdi di Legambiente e Fondazione Ecosistemi, mostra una debolezza dei Comuni nel recepire tali principi nelle proprie procedure di acquisto. Dalla lettura del rapporto, ad esempio, si può apprendere che su un campione di 800 Comuni solo il 53% riesce ad applicare in modo accurato le politiche green e a rispettare i criteri ambientali minimi nelle gare di appalto. Si tratta ovviamente di un indice medio delle performance ambientali nelle stazioni appaltanti locali, misurato sui bandi pubblici pubblicati nel 2023, ma il dato è significativo.
Il dato stride con quello concernente il grado di consapevolezza degli intervistati (perlopiù responsabili delle gare degli enti locali, ovvero gli amministratori pubblici) considerando che ben l’86% dichiara di conoscere lo strumento dell’appalto verde, ma solo l’11,5% ritiene prioritario perseguire l’implementazione e il monitoraggio di “acquisti verdi” e meno della metà del campione intende investire risorse economiche in formazione in questo ambito. C’è, quindi, da un lato la consapevolezza dello strumento, ma dall’altra emerge altrettanto chiaramente come ci sia molta strada da fare perché il Green public procurement diventi una priorità per le stazioni appaltanti italiane.
*project manager, esperto di economica circolare e dell’ambiente
**avvocato amministrativista – 1000 esperti Pnrr per gli appalti pubblici