Sono già 200.000 i chili di rifiuti estratti dal Great Pacific Garbage Patch grazie al dispositivo Ocean Cleanup
In futuro avremo oceani più puliti? Forse, visto il recente traguardo raggiunto da Ocean Cleanup, l’organizzazione impegnata nella messa a punto del primo sistema al mondo in grado di ripulire su larga scala gli ecosistemi marini. La fondazione olandese, che ha avviato la sua attività nel 2013, ha reso noto lo scorso aprile di aver rimosso circa 200.000 kg di spazzatura dalla Great Pacific Garbage Patch (Gpgp), l’isola di plastica più grande del mondo.
Situata nell’Oceano Pacifico, fra le Hawaii e la California, la Gpgp è un’immensa discarica fluttuante, formatasi in corrispondenza di una delle cinque spirali oceaniche della Terra. Qui converge circa un terzo degli 8 milioni di rifiuti plastici che ogni anno si riversano nelle acque oceaniche. Sono soprattutto reti “fantasma”, attrezzature per la pesca, sacchetti, bottiglie e giocattoli. Ma anche migliaia di trilioni di micro-frammenti plastici degradati dalla luce del sole, con conseguenze devastanti per la biodiversità.
«Dai nostri studi, circa l’80% dell’inquinamento è causato principalmente da mille corsi d’acqua e l’86% della Gpgp è dovuto all’industria della pesca» spiega Fedde Poppenk, Senior Project Engineer di Ocean Cleanup. In questa zona, dal luglio 2021 al dicembre 2022 è stato sperimentato il Sistema 002. «Una barriera galleggiante flessibile a forma di U, lunga 800 metri e con una campata da 600 metri – prosegue Poppenk – Una sorta di costa artificiale trainata alle estremità da due imbarcazioni, dotata di reti sottomarine in nylon che concentrano in un punto di raccolta i detriti, che vengono poi estratti e portati a terra con navi cargo per essere riciclati». A breve sarà affiancato dal nuovo Sistema 03. «Sarà tre volte più grande – continua Poppenk – per un totale di 2,5 km di lunghezza e una campata di 1,8 km». Dimensioni che dovrebbero garantire costi inferiori per il minor numero di navi di supporto.
Ocean Cleanup è un progetto che ha incontrato non poche sfide. Dal cosiddetto “overtopping”, la tendenza della plastica a sovrastare i galleggianti delle reti fuoriuscendo in mare aperto, alla gestione delle specie animali che rischiano di impigliarsi nelle fasi di raccolta. Sono al vaglio diverse misure: l’adozione di una moderata velocità di crociera per le imbarcazioni (da 0,5 a un massimo di 2,5 nodi durante le fasi di pulizia), la limitazione dell’inquinamento acustico e luminoso, ma anche l’adozione di telecamere subacquee, termocamere di bordo e droni per rilevare le tracce di calore dei mammiferi marini e ispezionare l’impianto in movimento. Per quanto riguarda i fiumi, invece, è stato messo a punto il River Interceptor, una barriera autonoma ancorata a forma di U, da posizionare sulla foce di corsi d’acqua.
Un progetto visionario, maturato nel 2011 dall’allora diciottenne Boyan Slat, durante un’immersione subacquea in Grecia, dove incontrò “più sacchetti di plastica che pesci”. L’anno seguente lo studente di ingegneria aerospaziale lanciò l’idea al TEDxDelf, raccogliendo grazie a un crowdfunding la cifra record di 2,1 milioni di dollari, che ha dato vita a Ocean Cleanup. A febbraio la fondazione ha firmato una partnership con il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (Undp) per collaborare all’eliminazione dell’inquinamento da plastica negli oceani e nei fiumi di tutto il mondo. «Il nostro obiettivo – ci ricorda Boyan Slat – è ridurre la plastica galleggiante del 90% entro il 2040».