
“È difficile per chi segue il conflitto non trovare prove evidenti di genocidio negli atti perpetrati dall’esercito israeliano nei confronti dei palestinesi di Gaza. Acqua, elettricità, energia e cibo, sono “armi” fondamentali in Palestina”
Sergio Ferraris, direttore di QualEnergia
La definizione del genocidio è ben chiara nell’articolo II della Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 9 dicembre 1948 che recita:
“[…] per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: uccisione di membri del gruppo; lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; misure volte a impedire nascite all’interno del gruppo; trasferimento forzato di bambini da un gruppo a un altro”
È difficile, per chi segue giornalmente la cronaca del conflitto Israele/Palestina, non trovare prove evidenti di tutto ciò negli atti perpetrati dall’esercito israeliano nei confronti dei palestinesi di Gaza. E il taglio delle risorse alla popolazione di quell’area è strutturale nel quadro del genocidio in atto. Acqua, elettricità, energia e cibo, sono “armi” fondamentali in tale disegno. Per molti abitanti di Gaza la legna è rimasta l’unica fonte energetica possibile, l’acqua è di difficile reperimento, l’elettricità dipende da generatori i cui combustibili sono sempre più scarsi, mentre sul cibo si sono riscontrate uccisioni mirate di persone in coda per i pochi aiuti distribuiti, come ha testimoniato The Guardian dando notizia dell’uccisione di Reem Zeidan, una donna palestinese colpita da un singolo proiettile in fronte, sparato da un cecchino o da un drone israeliano, mentre era in fila per il cibo dopo oltre tre ore di cammino. Uccisa di fronte ai suoi due figli adolescenti che hanno trascorso diverse ore accanto al suo corpo, immobilizzati dai colpi d’arma da fuoco. Non una novità, quello dell’utilizzo delle risorse come arma. Oltre trent’anni fa, durante la prima Intifada, chi scrive vide chiudere l’acqua a più di ventimila persone del campo profughi di Jenin per mesi come ritorsione a una serie di manifestazioni pacifiche e di massa. Che il conflitto in atto sia un conflitto per risorse come suolo e acqua è assodato. Il salto di qualità oggi è il loro utilizzo, non più come fine ultimo da raggiungere, ma come arma da impiegare per compiere un genocidio.
Testo tratto da QualEnergia di luglio/agosto 2025
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