
Il criterio di base per il riconoscimento delle bandiere è la validità di un progetto, affrontato come una scelta di vita con una buona dose di originalità e anticonformismo
In più di vent’anni, percorrendo in lungo e in largo le Alpi, abbiamo collezionato ben 283 Bandiere verdi, un ampio catalogo di territori e situazioni, dove le genti di montagna si stanno sperimentando in piccoli ma significativi percorsi progettuali di trasformazione di economie e società. Si va dall’agricoltura estensiva al turismo dolce, dal governo dei boschi alla mobilità sostenibile o alla difesa del patrimonio naturale e culturale, alle pratiche smart fino ad arrivare all’integrazione dei migranti e altro ancora. Il criterio di base per il riconoscimento delle bandiere è la validità di un progetto nella sua accezione più ampia, poiché segnale di una transizione verso la sostenibilità ambientale (e sociale). Ma non si tratta esclusivamente di singoli progetti, nella gran parte dei casi siamo di fronte a vere e proprie scelte di vita, affrontate con una buona dose di originalità se non di anticonformismo anche per quella voglia di andare in direzione ostinata e contraria rispetto al senso comune trionfante. Sono realtà nate in modo spontaneo, dal basso, con uno sguardo positivo e carico di ottimismo, con tanto coraggio, poiché ci vuole coraggio per accantonare l’ansia di un mondo diventato troppo complesso e problematico. Si osserva in esse un percorso autopropulsivo che induce in chi lo pratica la disponibilità al cambiamento, ma anche uno stimolo a che non si diventi soggetti passivi e rancorosi, poiché questo è il rischio dei tempi. Un rischio che, come abbiamo potuto vedere, può portare a cercare le soluzioni nella radicalizzazione del corporativismo, o negli interessi particolari da regolamentare.
Le buone pratiche di Carovana delle Alpi rappresentano casi di resistenza politica, sociale ed economica. I protagonisti per la gran parte sono dei riformatori per quel che concerne la dimensione uomo-natura, la qualità della vita e del lavoro. Ovunque è forte il senso del limite delle risorse. Non c’è depauperamento dell’ambiente e delle realtà in cui operano, al contrario si tende a migliorarli valorizzandone le componenti endogene con aspetti di forte innovazione. Sorgono così nuove opportunità di lavoro, generatici di un’economia vera e tale da permettere alle famiglie di vivere con dignità. Le storie raccontate descrivono un mondo oltre le rappresentazioni tradizionali dei montanari, definendo così una via terza. Una via potenzialmente efficace per superare le tante storiche polarizzazioni come la dicotomia città-montagna o, peggio ancora, lo stereotipo – tutto cittadino – della montagna in quanto regno esclusivo della wilderness, la stessa che ha nel mondo dello sci alpino il rovescio della medaglia. La montagna italiana non è il luogo dove andare per ritrovare l’incontaminato, ma nemmeno quel territorio senza padroni, da stravolgere pur di gareggiare a tutti i costi com’è successo di recente per il ghiacciaio del Teodulo in Valle d’Aosta.
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La nuova prospettiva emergente non può limitarsi alla montagna come spazio del buon vivere. Questo, se decontestualizzato, rischia di riportare all’atavica subalternità alla città. È nello scambio equo dei flussi di saperi e servizi tra città e montagna che si ristabilisce l’equilibrio. Uno scambio fondato innanzitutto sul mantenimento/ripristino dei servizi (medici, market, connessioni veloci internet, trasporti) sempre più carenti. I disegni di legge sulla montagna ora in discussione al Senato, in teoria dovrebbero perseguire questi obiettivi e noi lo auspichiamo. Tuttavia, ci si interroga su quella che è la vision politica e culturale che li sottende. Come una nuova legge potrà essere di supporto alla conversione ecologica, alla gestione delle risorse naturali, ai nuovi modelli di fruizione turistica e di rinvigorimento delle comunità di montagna?
Gli strumenti legislativi hanno bisogno di uno slancio culturale, di confronti larghi, d’intrecci positivi e legami tra Amministrazioni pubbliche, imprese, comunità, ma anche di terzo settore. Perché, come ricorda il sociologo Aldo Bonomi, occorre essere “costruttori di istituzioni future ponendo il tema della rappresentanza del terzo settore in quanto creatore di forme nuove di senso e reddito” – e ancora – “delineare una dimensione di istituzioni che vengono avanti a partire dalla rete di relazioni del territorio”. Occorre allargare la rete di relazioni per lavorare a nuove prospettive e a nuovi orizzonti affinché questo sano proliferare di buone pratiche possa essere condotto a sistema. Per avere e dare voce attraverso un percorso dove i corpi di mezzo del Terzo settore siano riconoscibili e riconosciuti in quanto facilitatori indispensabili nel governo dei processi socioeconomici della transizione.