Dischetti di plastica in mare, per la degradazione serviranno più di 300 anni

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Nel febbraio 2018 da un depuratore del comune di Capaccio sono fuoriusciti 100 milioni di dischetti di plastica, dispersi nel Mediterraneo. Mentre il processo per disastro ambientale è ancora in corso, uno studio ne ha analizzato ora tempi di degradazione e impatto ecologico

Negli ultimi anni, l’attenzione crescente verso la tutela delle risorse naturali e il riutilizzo delle acque ha spinto a migliorare l’efficienza degli impianti di depurazione municipali e industriali, soprattutto nei processi di rimozione dei nutrienti. In questo contesto sono stati introdotti innovativi supporti batterici detti “biofilm chips”. Sono piccoli elementi di plastica (in genere in polietilene o polipropilene) che, immersi nelle vasche di aerazione, permettono ai microrganismi di aderire alla loro superficie e formare un biofilm. Il movimento continuo dei dischetti, dovuto soprattutto alle microbolle d’aria immessa per assicurare la presenza di ossigeno disciolto, favorisce il contatto con i reflui aumentando così l’efficienza depurativa.

Nel febbraio 2018, decine di milioni di questi dischetti bianchi fuoriuscirono accidentalmente dall’impianto di depurazione di Capaccio a Paestum (Salerno), raggiungendo il fiume Sele e poi il Mar Tirreno. In poche ore si diffusero lungo le coste della Campania, del Lazio e della Toscana. Nei mesi successivi arrivarono fino alle coste di Francia, Spagna e Tunisia. Si stima che almeno 100 milioni di dischetti siano stati dispersi in mare. 

Legambiente, insieme a Clean Sea Life e ad altre organizzazioni ambientaliste, ha avviato quindi una campagna nazionale di raccolta chiamata #cacciaaldischetto, grazie alla quale ne sono stati recuperati e catalogati più di 250.000. Questo episodio ha portato anche al primo procedimento giudiziario in Italia per inquinamento marino da plastica, reso possibile dalla legge 68/2015 sugli ecoreati.

A distanza di anni, i dischetti continuano a riemergere dopo le mareggiate, rappresentando una minaccia per la fauna marina. Alcuni studi hanno anche collegato la loro ingestione alla morte di tartarughe e ad altri danni ecologici. Un incidente analogo era avvenuto nel 2011 nel New Hampshire (Usa), dove milioni di dischetti si erano riversati nel fiume Merrimack, raggiungendo successivamente le coste del Nord Europa.

Il caso dei dischetti ha richiamato l’attenzione sul problema, ormai cronico, della plastica in mare. Questi materiali, con il tempo, si degradano in micro e nanoplastiche, particolarmente pericolose per gli ecosistemi e la salute umana.  Il polietilene (PE), materiale di cui sono composti molti di questi supporti, è uno dei polimeri più diffusi e resistenti, ma degrada molto lentamente in ambiente naturale. La sua decomposizione è influenzata da luce (UV), ossigeno, microrganismi e stress meccanico (vento, sabbia, correnti). Durante la sua degradazione, il PE sviluppa gruppi chimici che possono trattenere metalli pesanti, molecole organiche e batteri, amplificando gli effetti inquinanti.

Il caso dei dischetti rappresenta un’occasione unica per studiare, in condizioni reali, la degradazione a lungo termine del polietilene in ambiente marino, perché sappiamo esattamente quando i materiali sono “entrati” in mare. Così si possono comprendere meglio i processi di invecchiamento dei polimeri e il loro impatto ecologico. Uno studio scientifico, pubblicato sulla rivista Marine Pollution Bullettin, ha analizzato la degradazione dei dischetti in polietilene dispersi, valutandone l’evoluzione morfologica, chimica e strutturale tra il 2018 e il 2023. I dischetti sono stati raccolti lungo le spiagge del Lazio durante le annuali attività di monitoraggio delle coppie di Fratino nidificanti nella regione.

La caratterizzazione dei dischetti

dischetti plastica
Un’immagine dallo studio su Marine Pollution Bullettin

A livello macroscopico, i dischi non mostrano segni evidenti di degrado, sebbene alcuni campioni raccolti nel 2022 e 2023 presentino leggere variazioni cromatiche, dovute all’esposizione solare e alla formazione di gruppi che indicano l’ossidazione delle catene polimeriche. Le misurazioni evidenziano un calo medio del 4,75% in peso nel periodo 2018–2023, associato a perdita di materiale per degradazione chimica e abrasione meccanica da sabbia e vento, processi che favoriscono la formazione di micro e nanoplastiche. Il tasso di degradazione specifico dei dischetti è stimato in 9,5 μm/anno per lo spessore e 3,7 mg/anno per il peso. Utilizzando questi valori è stato stimato un tempo di degradazione totale di oltre 300 anni. 

L’analisi spettroscopica ha evidenziato un progressivo aumento dei picchi associati ai gruppi ossigenati (carbonili e idrossili) segno di un’ossidazione crescente dovuta alla fotodegradazione. Il Carbonyl Index, un indice in grado di valutare l’entità di degradazione, è aumentato fino al 200% tra il 2018 e il 2023, indicando una marcata variabilità delle condizioni ambientali di esposizione. L’analisi spettroscopica conferma la formazione di doppi legami e prodotti insaturi tipici della degradazione fotochimica (il polietilene è una macromolecola che non ha né doppi legami né ossigeno).
Le immagini prodotte con il microscopio elettronico mostrano superfici sempre più ruvide, con presenza di erosioni, fratture e porosità, che facilitano la penetrazione dell’ossigeno e accelerano la degradazione superficiale. Il rapporto O/C aumenta nel tempo (da 0,18 a 0,27), confermando l’ossidazione progressiva del polimero. I dischi mantengono inoltre una superficie idrofoba che facilita la colonizzazione microbica e quindi fenomeni di biodegradazione enzimatica.

In conclusione, le analisi dimostrano che i dischetti subiscono processi di degradazione lenti ma continui, con modifiche chimiche che alterano la reattività superficiale e possono influenzare l’interazione con contaminanti e organismi marini. Si stima che lo sversamento iniziale abbia immesso nel Mediterraneo circa 150 tonnellate di plastica e che ogni anno vengano rilasciati circa 0,5 tonnellate di micro e nanoplastiche. Un’emissione invisibile ma significativa, che contribuisce alla contaminazione cronica degli ecosistemi marini.

Consulta lo studio su Marine Pollution Bullettin