
Il docufilm del regista siciliano Salvatore Gucciardo sostiene la vertenza di un gruppo di uomini licenziati dopo anni di lavoro in un macello nel Cremonese
Un fuoco acceso davanti ai cancelli, un gruppo di uomini che non si arrende, una lotta che si fa resistenza. Sono stati licenziati senza preavviso, senza tutele, dopo anni di lavoro in un macello industriale nel Cremonese. Ma gli operai della ProSus, quasi tutti provenienti dal Punjab, non hanno abbassato la testa: hanno occupato la fabbrica, hanno lottato, hanno subito uno sgombero.
A raccontare la loro storia, con uno sguardo vicino e partecipe, è stato il giovane regista siciliano Salvatore Gucciardo, che ha deciso di documentare questa resistenza attraverso un film. Il suo documentario non è solo una cronaca degli eventi, ma un ritratto umano e collettivo di chi ha scelto di non arrendersi, di ha alimentato quel fuoco con la propria determinazione.
Attraverso le voci degli operai, il film restituisce il racconto del sistema degli appalti, delle condizioni di lavoro, dello sgombero. Ma racconta anche di loro, delle loro paure, del futuro incerto. Perché dietro ogni lotta ci sono sempre vite, relazioni, sogni. E questa storia meritava di essere raccontata. Abbiamo chiesto a Gucciardo cosa lo abbia spinto a raccontare questa storia e quale impatto spera possa avere il suo lavoro.
Cosa l’ha spinta a raccontare questa storia attraverso un docufilm e quanto pensa che possa contribuire a renderla un modello e un’occasione di riflessione per il Paese?
Sono venuto a conoscenza della vertenza degli operai della ProSus attraverso un compagno che vive a Cremona e che la seguiva fin dall’inizio, nell’ottobre 2023. Ho deciso di andare direttamente lì poco dopo lo sgombero del 13 febbraio 2024, per vedere e conoscere da vicino la loro lotta. Inizialmente, con le altre compagne del comitato “1minutodipiù”, volevamo solo documentare quanto stava accadendo con delle foto, dato che né la stampa locale né quella nazionale aveva dato spazio alla notizia. Parlando con gli operai e ascoltando la loro volontà di raccontarsi, abbiamo capito che il modo migliore per rispettare la loro voce e la loro autodeterminazione fosse realizzare un documentario. La loro lotta è importante non solo per tornare in contatto con un mondo operaio sempre più invisibile, ma anche per imparare dalla loro determinazione. Il loro racconto svela non solo il sistema degli appalti, ma anche le contraddizioni profonde del capitalismo contemporaneo e le condizioni del lavoro operaio oggi.
Qual è stato il primo contatto con i lavoratori e la loro lotta?
Siamo entrati in contatto con i lavoratori grazie alla presenza a Cremona di alcuni compagni che seguivano la vertenza. Sentire parlare di una lotta operaia da lontano non permette mai di comprenderla davvero: si rischia di perdersi nella notizia senza coglierne la costanza, la quotidianità. Ho conosciuto davvero la loro resistenza solo a febbraio, dopo lo sgombero e quattro mesi di occupazione. Passare le giornate al presidio, stare con gli operai, ascoltare le loro storie e opinioni, bere tanto chai insieme: è così che abbiamo davvero capito la loro lotta. È stata un’esperienza che ci ha permesso di toccare con mano la loro determinazione e la loro costanza.
Quali sono stati gli elementi più difficili da raccontare?
La vera difficoltà è stata rispettare il più possibile il punto di vista degli operai. Per questo motivo, abbiamo scelto di non costruire protagonisti singoli, di non seguire una o due storie individuali, ma di restituire una narrazione corale. Volevamo che emergesse la collettività della lotta, la molteplicità di voci e prospettive che animavano quel presidio.
A chi ritiene che sia principalmente rivolto il docufilm?
A chiunque. La storia degli operai della ProSus riguarda tutta l’Italia: parla del sistema produttivo, dello sfruttamento dei lavoratori, della pratica degli appalti e anche dell’immigrazione. Abbiamo cercato di evitare una narrazione pietistica. Questo non è un documentario sulla sofferenza, ma sulla lotta e la determinazione. Vogliamo che chi lo guarda provi rabbia di fronte a un’ingiustizia tanto evidente quanto difficile da accettare, ma anche che ne esca con un senso di forza e resistenza.
Quanto emotivamente l’ha coinvolta lavorare al docufilm?
Conoscere questa storia e gli operai della ProSus, stare con loro, mangiare insieme, chiacchierare e giocare a carte, mi ha coinvolto profondamente. E non solo me: tutti noi abbiamo vissuto il presidio e le compagne che ora stanno a Cremona continuano a farlo. Questa vicinanza alla lotta ci ha dato molto. Personalmente, mi ha fatto mettere in discussione molte convinzioni e schemi di pensiero.
Sta pensando a ulteriori progetti sulla stessa linea?
Questa storia aveva bisogno di essere raccontata subito, di circolare il prima possibile. Il documentario è nato quasi per caso: prima c’era solo la volontà di documentare i fatti, poi è arrivata l’idea artistica. Ora, sto seguendo altre situazioni di lotta e collettivi, ma senza un fine documentaristico preciso. C’è però un progetto a cui sto lavorando, anche se con calma: un documentario sul santo della mia città e mia nonna. Sul loro rapporto complicato. Agrigento è un posto che vorrei documentare molto. Un luogo assurdo e paradossale, pieno di storie e di personaggi che non sanno nemmeno di esserlo. La lotta degli operai della ProSus è una delle tante battaglie silenziose che attraversano il Paese, spesso dimenticate o ignorate dai grandi mezzi di comunicazione. Il lavoro di Gucciardo non solo dà voce a chi rischia di essere cancellato dalla narrazione pubblica, ma ci ricorda che la resistenza operaia esiste ancora, e che raccontarla è un atto di giustizia.