Giustizia climatica, la Cassazione ammette il ricorso di Greenpeace e ReCommon contro Eni

Manifestazione di Greenpeace sulla piattaforma Penguins della Shell nel Mare del Nord

La “Giusta causa” può arrivare davanti ai giudici. Per le associazioni è una sentenza storica: “da oggi anche in Italia si possono avviare le cause climatiche contro aziende private”. Un giudice dovrà decidere sui danni che Eni ha contribuito ad arrecare ai cittadini

 

Un nuovo capitolo per il diritto ambientale in Italia. La Corte di Cassazione ha stabilito lunedì 21 luglio che anche nel nostro Paese si possono istruire le cause climatiche contro aziende private per difendere i diritti di cittadini e cittadine.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione infatti, riunitesi lo scorso 18 febbraio, hanno dato ragione a Greenpeace Italia, ReCommon e 12 cittadine e cittadini che nei mesi scorsi avevano fatto ricorso alla Suprema Corte dopo aver intentato causa civile nel maggio 2023 contro il colosso Eni e i suoi azionisti di maggioranza relativa – il Ministero dell’Economia e delle Finanze e Cassa Depositi e Prestiti – per i danni subiti o futuri derivanti dai cambiamenti climatici.  

Sul sito di Greenpeace, sono manifesti i motivi per cui si è scelto di portare avanti la “Giusta Causa” contro Eni: “è responsabile a livello globale di un volume di emissioni di gas serra superiore a quello dell’intera Italia, essendo così uno dei principali artefici del cambiamento climatico in atto. Eni e le altre compagnie petrolifere sono consapevoli da oltre cinquant’anni dell’impatto che le loro attività hanno sul clima, tanto da mettere in atto strategie di lobby e di greenwashing per mascherare le proprie responsabilità”.

Eni, Cdp e Mef avevano eccepito “il difetto assoluto di giurisdizione del giudice ordinario adito”, ritenendo che nel nostro Paese una causa climatica non fosse procedibile. Greenpeace Italia, ReCommon e le cittadine e cittadini che hanno promosso la “Giusta Causa” hanno dunque fatto ricorso per regolamento di giurisdizione alla Suprema Corte, a cui hanno chiesto un pronunciamento in via definitiva, che ora è finalmente arrivato.

La Giusta Causa è di fatto la prima climate change litigation in Italia e porta il nostro Paese allo stesso livello di tanti altri – Germania, Olanda, Svizzera, Portogallo, Francia – in cui sono ormai oltre 200 le Climate litigations aperte per denunciare la responsabilità di chi agisce contribuendo all’aumento del riscaldamento climatico. La pronuncia si inserisce quindi nel quadro di altre decisioni giudiziarie sullo stesso tema. Ha fatto giurisdizione, tra gli altri, la decisione della Corte europea dei Diritti dell’uomo dell’aprile 2024 sulla causa avviata dall’associazione delle Anziane per il Clima svizzere.

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La soddisfazione di Greenpeace Italia e ReCommon: “Questa sentenza storica dice chiaramente che anche in Italia si può avere giustizia climatica”, commentano. “Nessuno, nemmeno un colosso come Eni, può più sottrarsi alle proprie responsabilità. I giudici potranno finalmente esaminare il merito della nostra causa: chi inquina e contribuisce alla crisi climatica deve rispondere delle proprie azioni”. E ancora: “Il responso della Suprema Corte sancisce senza ombra di dubbio che i giudici italiani si possono pronunciare sui danni derivanti dal cambiamento climatico sulla scorta tanto della normativa nazionale, quanto delle normative sovranazionali e che, dunque, le cause climatiche nel nostro Paese sono lecite e ammissibili anche in termini di condanna delle aziende fossili a limitare i volumi delle emissioni climalteranti in atmosfera. La Cassazione ribadisce anche che un contenzioso climatico come quello intentato da Greenpeace Italia e ReCommon non è affatto un’invasione nelle competenze politiche del legislatore o delle aziende, quali Eni. La tutela dei diritti umani fondamentali di cittadine e cittadini minacciati dall’emergenza climatica è superiore a ogni altra prerogativa e da oggi sarà possibile avere giustizia climatica anche nei tribunali italiani”.

Non si è fatta attendere la reazione di Eni: “Finalmente si potrà riprendere il dibattimento innanzi al tribunale di Roma dove saranno smontati i teoremi infondati di Greenpeace e ReCommon sulle fantasiose responsabilità per danni attribuibili ad Eni relativi ai temi del cambiamento climatico, in un contesto rigoroso e rispettoso della legge” ha commentato il gruppo, che sul sito nomina l’azione legale come “Falsa causa”, aggiungendo:  “l’azione civile promossa da Greenpeace, ReCommon e alcuni attori privati rispecchia una demonizzazione del ruolo della grande impresa in Italia e si fonda su tesi e pregiudizi smentiti dai fatti”.

Le Sezioni Unite hanno chiarito intanto che i giudici italiani sono competenti anche in relazione alle emissioni climalteranti emesse dalle società di Eni presenti in Stati esteri, sia perché i danni sono stati provocati in Italia, sia perché le decisioni strategiche sono state assunte dalla società capogruppo che ha sede in Italia. Il giudice a cui è stato assegnato il contenzioso climatico dovrà ora entrare nel merito dei danni che Eni ha contribuito ad arrecare agli attori ricorrenti.