Hai mai visto questo piccolo cult erotico con Brad Pitt? Un flop da 14 milioni da rivalutare

Quando si parla della scalata al successo di Brad Pitt, i titoli che vengono citati sono sempre gli stessi: Thelma & Louise, Intervista col vampiro, Seven. Raramente qualcuno menziona Fuga dal mondo dei sogni, l’esperimento surreale e caotico del 1992 che mescolava live action e animazione erotica in un cocktail esplosivo di noir, colori acidi e logica da febbre onirica. Il film visse e morì in una strana ombra culturale, ricordato vagamente, quasi mai rivisto, trattato come una leggenda metropolitana hollywoodiana su una produzione andata clamorosamente fuori controllo.

Eppure c’è qualcosa in Fuga dal mondo dei sogni che continua ad affascinare chi ci inciampa sopra decenni dopo. Visivamente audace, narrativamente delirante, tonalmente unico nel panorama cinematografico di Pitt e di Hollywood in generale, il film confuse il pubblico del suo tempo con la sua miscela di grintoso noir, animazione per adulti e logica da incubo. Oggi, quelle stesse qualità sembrano incredibilmente fresche se paragonate all’ipercontrollato cinema di franchise che domina i botteghini. Lungi dall’essere un semplice flop, Fuga dal mondo dei sogni è un manufatto coraggioso di ambizione creativa, interferenze degli studios e storia dell’animazione che merita una riscoperta cult.

Il film arrivò in un momento storico particolare: l’animazione per adulti negli Stati Uniti era ancora considerata una scommessa rischiosa. Il successo di Chi ha incastrato Roger Rabbit aveva convinto molti studios che il pubblico fosse pronto per ibridi live action-animazione pensati per spettatori maturi. La Paramount voleva cavalcare quell’onda, e l’animatore Ralph Bakshi, già famoso per opere provocatorie come Fritz the Cat e Wizards, sembrava il visionario perfetto per il progetto.

Quello che accadde realmente è uno scontro ormai leggendario tra un regista che voleva realizzare un film violento, oscuro e provocatorio, e uno studio che desiderava un prodotto commerciale appetibile per adolescenti, con il volto di Brad Pitt stampato su ogni poster. Il Fuga dal mondo dei sogni finito in sala segue Frank Harris, un veterano della Seconda Guerra Mondiale interpretato da Pitt, che dopo un bizzarro incidente diventa detective in una dimensione cartoon chiamata Cool World. Il suo compito è mantenere l’ordine in questo regno imprevedibile popolato da iperattivi Doodles e Noids, gli umani che occasionalmente attraversano il confine dimensionale.

Nonostante tutta questa inventiva visiva, i critici del 1992 rimasero profondamente non impressionati e Fuga dal mondo dei sogni fu rapidamente etichettato come un disastro commerciale. Il pubblico era confuso dal marketing, che suggeriva una commedia erotica invece di un noir surreale su identità, creazione artistica e il confine sfumato tra fantasia e realtà. Il film incassò solo circa 14 milioni di dollari contro un budget di produzione stimato tra i 28 e i 30 milioni. Per la Paramount, questa fu la prova che l’animazione per adulti non poteva funzionare senza il fascino mainstream di qualcosa come Roger Rabbit. Per Bakshi, segnò la fine della sua carriera cinematografica nelle sale.

Ma anche negli anni Novanta esisteva già una piccola fazione di spettatori attratti dalla sua estrema stranezza. Oggi, rivedere Fuga dal mondo dei sogni rivela un film che, pur essendo innegabilmente imperfetto, trabocca di immaginazione. Sotto la trama confusa e le performance altalenanti si nasconde un concetto che era molto avanti rispetto ai suoi tempi. In un’era in cui il pubblico abbraccia multiversi, metafinzione autoreferenziale e mondi animati visivamente travolgenti, Fuga dal mondo dei sogni sembra stranamente profetico. Il film divenne anche una curiosità VHS sui canali via cavo notturni: troppo bizzarro per essere completamente dimenticato.

In un’epoca di cinema algoritmico, dove ogni inquadratura è testata e ogni elemento narrativo calibrato per massimizzare l’appeal di massa, Fuga dal mondo dei sogni rappresenta qualcosa di sempre più raro: un rischio vero, un progetto che osò essere sgradevole, sessualmente ambiguo, visivamente aggressivo e narrativamente opaco. Non è un capolavoro incompreso, ma è certamente un artefatto culturale che merita di essere rivalutato. Un film che ha distrutto una carriera ma che, paradossalmente, potrebbe oggi trovare il pubblico che trent’anni fa non era pronto ad accoglierlo.

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