Kevin Spacey al Lucca Film Festival: “Amo l’Italia e sono grato per questa opportunità”

Il solito sguardo enigmatico, la voce calma e la sua tipica espressione dalle mille sfumature. Al pari dei suoi personaggi, capaci di essere contemporaneamente mansueti e pericolosi. Nel pomeriggio di domenica 21 settembre Kevin Spacey ha aperto la sua Masterclass nella Chiesa di San Francesco di Lucca, location scelta per accogliere la grande affluenza di pubblico. L’evento era parte del programma del Lucca Film Festival, che già il sabato sera aveva omaggiato l’attore americano con un premio alla carriera e con l’anteprima mondiale del suo nuovo film, 1780.

Non si è trattato solo di una masterclass sul mestiere dell’attore, ma una lezione anche su come tornare a questo lavoro dopo anni di “esilio forzato”. Dopo le accuse, i processi con le successive assoluzioni, la sua figura non è rientrata in pianta stabile nell’industria cinematografica. Quantomeno non in quella hollywoodiana, così Spacey ha rivolto lo sguardo all’Europa.

Dalla madre a Jack Lemmon, passando per Val Kilmer

Un giovane Kevin Spacey
Un giovane Kevin Spacey, fonte: THR

L’attore oscilla magistralmente tra lo scherzo e l’emozione nel ripercorrere la sua intera carriera davanti alle seicento persone presenti. Partendo dal perché di fondo che lo ha spinto ad intraprenderla: la risata della madre. Mentre lei lo introduceva ai grandi divi dei suoi tempi (James Stewart, Humphrey Bogart, Audrey Hepburn, Cary Grant), lui si scoprì capace di imitare le loro voci. E scatenare l’allegria della madre fu puro carburante per i suoi primi passi.

Kevin Spacey ci ha accompagnato nei suoi primi passi sul palcoscenico (“luogo del rifugio”), creando una montagna russa di emozioni, alternando il ricordo di Val Kilmer, compagno di studi e degli esordi sui teatri newyorkesi, per poi far rivivere con un’imitazione il suo grande mentore, Jack Lemmon (a lui dedicò l’Oscar per American Beauty)

La lezione: Less is more

Kevin Spacey e Jack Lemmon in Americani
Kevin Spacey e Jack Lemmon in Americani ©New Line Cinema

La chiacchierata con il due volte premio Oscar non è solo un excursus autobiografico, ma anche una lezione sul mestiere dell’attore. Spacey svuota la figura dell’attore di tutto il suo egocentrismo, ricordando il suo ruolo come servitore, non più di sé stesso ma, dell’opera scritta. L’attore che emerge, dunque, non è uno storyteller ma quasi un mezzo nelle mani del regista per dare corpo alla sua interpretazione dell’opera. Un ingranaggio di quella immensa macchina che è il cinema, la cui missione è la reazione a ciò che gli accade intorno.

La sua recitazione si rivela un processo di decostruzione del superfluo, una continua sottrazione di futili dettagli, fiducioso della comprensione del pubblico. “Do a little bit less“, il mantra che Jack Lemmon imparò dal regista George Cukor e che trasmise all’esordiente Spacey. E lui ne fece un memorandum che dura ancora oggi. Ricorda, infatti, come molti sguardi in camera del suo Frank Underwood erano figli di continui tagli allo scritto, di dettagli inutili che il pubblico già conosceva o che potevano essere trasmessi con il solo sguardo.

Con Fincher e Mendes: perfezionismo sul set

Una scena di Seven con Kevin Spacey, Brad Pitt e Morgan Freeman
Una scena di Seven con Kevin Spacey, Brad Pitt e Morgan Freeman ©New Line Cinema

Il suo stile recitativo “Less is more” è poi stato accompagnato e rafforzato dalla grande meticolosità dei registi con cui ha collaborato. Ovviamente, su tutti spiccano due nomi: David Fincher e Sam Mendes. Riguardo il film Seven (1995) Spacey ha rivelato che in un primo momento non aveva ottenuto la parte, ma venne richiamato diversi mesi più tardi, la mattina della vigilia di Natale.

Ricorda poi il perfezionismo di Fincher, un regista che poteva richiedere nuovi ciak anche decine di volte per il risultato ottimale e lo stesso Spacey era consapevole di come questo stile lo spingesse a migliorarsi sempre di più. Analogo il clima che ha vissuto sul set di American Beauty (1999) con Sam Mendes, regista teatrale all’esordio dietro la macchina da presa. L’impegno e la cura che ebbe sorpresero lo stesso Spacey, il quale ricorda la confessione del regista dopo due giorni di riprese: odiava tutto del film (sceneggiatura esclusa). Per questo stravolse ogni dettaglio (costumi e location incluse) per rigirare tutto nuovamente.

Da House of Cards a una nuova vita

Kevin Spacey in House of Cards
Kevin Spacey in House of Cards, fonte: Netflix

Una lezione di oltre un’ora, in cui Kevin Spacey non poteva non toccare un tema, non senza togliersi anche qualche sassolino dalla scarpa: House of Cards. La serie Netflix che ha dato all’attore una dimensione ancor più globale, che ha dato inizio ad una nuova serialità, che ha stravolto le abitudini di fruizione di noi spettatori. Un caso unico:  Netflix rinnovò la serie sin dall’inizio per due stagioni. Una macchina perfetta, dagli scrittori agli attori, passando per i registi. Spacey non si risparmia negli elogi alle opere, agli attori e ai registi che ha incontrato nella sua carriera, e nonostante il ritiro dalle scene per le vicende giudiziarie che lo hanno coinvolto, non mostra astio o rancori, fin quando arriva al suo Frank Underwood.

Rivendica, infatti, con un sorriso e un pizzico d’ironia, come il suo personaggio sia stato fatto fuori dalla serie ma sottolinea anche chenon lo avete mai visto morto“. Nonostante abbia rimarcato questa “non morte”, quel che trasmette è un Kevin Spacey rinato, o quantomeno rinnovato. Se prima, infatti, voleva essere il miglior attore in circolazione, adesso il suo scopo non è più sul fronte lavorativo ma umano: continuare a dimostrare di essere una persona buona.

Il ricordo di Redford e l’amore per l’Italia

Masterclass di Kevin Spacey al Lucca FIlm Festival
Masterclass di Kevin Spacey al Lucca FIlm Festival © Luca Spitaleri per Screenworld.it

Il tono scherzoso e leggero che ha accompagnato gli oltre settanta minuti di Masterclass ha poi lasciato spazio alle lacrime di commozione finale. Commozione nel segno di Robert Redford, scomparso il 16 settembre scorso, all’età di 89 anni, ricordato da Spacey con un aneddoto emblematico della persona che era. I due si incrociarono solo in occasione di un provino per il film da lui diretto, Quiz Show (1994). Spacey non ottenne la parte, ma ricorda la lettera che il suo agente ricevette poco dopo: un ringraziamento personale di Redford per il tempo e il talento messi in quel provino. Un gesto insolito, per usare un eufemismo, che testimonia l’umanità di un artista che ha segnato la storia del cinema.

La chiusura commossa non poteva che riguardare il Belpaese. L’Italia, infatti, si è dimostrata tra le più inclini ad accoglierlo. Inviti, interviste, nuove produzioni cinematografiche (si pensi al film diretto da Franco Nero del 2021, L’uomo che disegnò Dio) e televisive in arrivo a novembre (Minimarket, 2025).  Quell’ambiguità ipnotica che ha sempre caratterizzato il suo sguardo d’attore è, adesso, diventata decisione a riconquistare un ruolo nella settima arte, da Hollywood a Roma. Qui, ha scherzato l’attore, tenterà di ottenere il passaporto italiano, perché, dopotutto “Who doesn’t love Italy?”.

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