Lo studio pubblicato su Science Advances: dalla crisi climatica alla biosfera, dalla deforestazione all’introduzione di agenti inquinanti, l’attività umana influisce sull’ambiente e gli ecosistemi, mettendo a rischio la stabilità della Terra. Sei limiti sono già stati superati
A poco più di un mese dall’Earth Overshoot Day, caduto quest’anno il 2 agosto, giorno in cui vengono consumate per intero le risorse che la Terra produce in un anno, l’umanità segna un nuovo record negativo per quanto riguarda i “limiti planetari”, ovvero i 9 limiti operativi entro i quali l’uomo può agire senza compromettere in maniera irreversibile l’ambiente globale. Il 13 settembre, lo studio “Earth beyond six of nine planetary boundaries” pubblicato su Science Advances ha dichiarato ufficialmente che di questi 9 limiti, 6 sono stati oltrepassati e sono tutti pesantemente influenzati dalle attività umane.
La teoria dei limiti, o confini, planetari nasce nel 2009 quando un gruppo di 29 scienziati guidati da Johan Rockström dello Stockholm Resilience Center, dell’università di Stoccolma, pubblica su Ecology & Society l’articolo “A safe operating space for humanity”. Alla base della teoria vi è l’idea per cui esisterebbero 9 processi globali che durante l’era dell’Olocene – in corso da più di 10.000 anni e nella quale ci troviamo attualmente – avrebbero permesso alla Terra di mantenere una certa stabilità climatica e ambientale, favorendo lo sviluppo stesso dell’umanità.
A ognuno dei processi corrisponde una soglia critica superata la quale si rischia di pregiudicare in maniera permanente la stabilità della Terra: i valori di riferimento sono quelli relativi al periodo preindustriale, durante il quale i processi globali e i relativi confini sarebbero rimasti pressoché stabili, venendo poi alterati a partire dalla Rivoluzione industriale: per tale motivo alcuni scienziati hanno suggerito di dichiarare chiusa l’era dell’Olocene e aperta quella dell’Antropocene, in cui è l’uomo l’autore principale dei cambiamenti nei sistemi naturali.
I nove confini individuati da Rockström e colleghi, basati sui livelli di inquinamento preindustriale, sono: crisi climatica; perdita di biodiversità – indicato dal 2015 cambiamento nell’integrità della biosfera; alterazione dei cicli biogeochimici (in particolare azoto e fosforo); acidificazione degli oceani; consumo di suolo e modifiche alla geografia del territorio; disponibilità di acqua dolce – che ora comprende sia la blue water (l’acqua di superficie e sotterranea) che la green water (l’acqua disponibile per suolo e coltivazioni); riduzione dello strato di ozono; quantità di aerosol atmosferico; inquinamento chimico – che dal 2015 è indicato come “introduzione di nuove entità” nell’ambiente (ovvero elementi di carattere antropico come sostanze chimiche e sintetiche e materiali radioattivi).
La crisi in numeri
Dei 9 limiti fissati, 3 (crisi climatica, perdita di biodiversità e alterazione dei cicli biogeochimici), erano già stati superati nel 2009. Nel 2015, un aggiornamento pubblicato su Science ha evidenziato come le attività umane, in particolare l’eccessiva deforestazione, abbiano portato al superamento del limite legato al consumo di suolo. Nuovi rilevamenti avvenuti nel corso del 2022 hanno evidenziato il superamento dei limiti legati alla disponibilità di acqua dolce e all’introduzione nell’ambiente di “nuove entità” ovvero di agenti inquinanti come plastiche, microplastiche, pesticidi e scorie nucleari.
Quello pubblicato il 13 settembre è il terzo aggiornamento della teoria dei “limiti planetari” e, oltre a confermare il superamento di 6 limiti su 9, fornisce per la prima volta un quadro completo e globale di tutti e 9 i processi, con relative soglie, sottolineando come i valori siano in costante aumento. Un caso esemplare è la concentrazione dei livelli di CO2 nell’atmosfera, usata per monitorare il cambiamento climatico, la cui soglia, posta a 350 parti per milione (ppm), è stata ampiamente superata già nel 2015, con 400 ppm, arrivando a 420 ppm nel 2023.
Dei 3 confini non ancora superati, invece, l’unico a mostrare segni di miglioramento è quello relativo alla riduzione dello strato di ozono, mentre mostrano delle criticità sia l’acidificazione degli oceani sia la quantità di aerosol atmosferico.
Per quanto riguarda lo strato di ozono, grazie agli accordi stabiliti dal Protocollo di Montreal, entrato in vigore nel 1989, si è avuta una riduzione dei valori dei cluorofluorocarburi, responsabili dell’assottigliamento dello strato di ozono negli anni passati e ad oggi si è molto più vicini ai livelli preindustriali che al limite planetario fissato.
Dal punto di vista dell’acidificazione degli oceani, invece, i valori si presentano ancora sotto la media preindustriale globale, ma lo studio mostra un peggioramento della situazione a causa delle emissioni di CO2. Per l’aerosol atmosferico, infine, i valori erano inizialmente non quantificabili, data la mancanza di dati su comportamento e interazioni delle polveri sottili e sugli effetti che esse hanno a livello idrico, ecologico e biochimico. Tuttavia, nuove prove scientifiche hanno permesso al gruppo di scienziati di stabilire, seppur con incertezza, che i valori sono stati superati in determinate regioni, restando però al di sotto dei limiti a livello globale.
Le posizioni degli studiosi
Lo studio presenta anche delle novità rispetto al passato, come un nuovo approccio nella valutazione dell’integrità della biosfera, in base al quale il funzionamento degli ecosistemi risulterebbe compromesso già dalla fine del XIX secolo, a seguito dell’espansione globale di agricoltura e silvicoltura, e l’implementazione di modelli e simulazioni computerizzati, usati per studiare le interazioni tra il clima e gli ecosistemi non solo nei processi che reagiscono rapidamente ai cambiamenti, ma anche nei processi più lenti, visti come ciò che determinerà l’esito del cambiamento ambientale oggi in atto.
Va precisato che oltrepassare un confine non significa dar vita, da un giorno all’altro, a cambiamenti drastici, ma rappresenta l’aumento dei rischi per le persone e gli ecosistemi. Tuttavia, come commenta Johan Rockström, coautore dell’articolo pubblicato su Science Advances, “non sappiamo per quanto tempo potremo continuare a trasgredire questi limiti fondamentali prima che le pressioni combinate portino a cambiamenti e danni irreversibili”. Per tale motivo, lo studio rimarca anche la necessità che governi, società e imprese diano vita ad azioni che, partendo dall’eliminazione dei combustibili fossili, permettano di affrontare non solo il cambiamento climatico, ma tutti i processi fisici, chimici e biologici in atto.
“Possiamo pensare alla Terra come a un corpo umano e ai confini planetari come alla pressione sanguigna – ha commentato Katherine Richardson, autrice principale dello studio e leader del Sustainability Science Center dell’Università di Copenaghen – Oltre 120/80 non indica un infarto, ma ne aumenta il rischio e quindi si lavora per ridurre la pressione sanguigna. Il limite per la riduzione dell’ozono è stato superato negli anni ’90 ma, grazie alle iniziative globali, catalizzate dal Protocollo di Montreal, questo limite non viene più oltrepassato”.
Il nuovo studio sui confini planetari sottolinea dunque i legami e le interconnessioni esistenti tra uomo e ambiente, fornendo informazioni utili per compiere azioni che permettano di recuperare e proteggere la stabilità della Terra.