La tragedia di Milena Sutter commuove i genovesi mezzo secolo dopo: ricordi e precisazioni sul caso Bozano

La tragedia di Milena Sutter fa ancora commuovere i genovesi a quasi mezzo secolo da quella assurda e crudele vicenda.

Franco Manzitti l’ha ricostruita e rievocata per Primo Canale, tv leader a Genova

C’è un dettaglio che vorrei precisare nell’intervista a Aldo Repetto, oggi novantenne, all’epoca giornalista all’Ansa di Genova. Ecco come andò veramente.

Repetto, con Tito Manes e un altro amico che lavoravano come telescriventisti in un ufficio vicino, era stato tempo addietro in pizzeria con un giovanotto che, attratto dal mondo dei giornali, li aveva agganciati. Quel giovane era Lorenzo Bozano.

In quella occasione Bozano aveva esposto la sua teoria: rapisco, prendo i soldi e uccido così nessuno mi scopre.

Dopo che Bozano venne indicato come sospetto autore del rapimento di Milena Sutter un campanello suonò nella testa già pelata a meno di 40 anni di Repetto. Così Aldo venne a raccontarmi l’episodio.

Milena Sutter, la rievocazione di Manzitti

La tragedia di Milena Sutter commuove i genovesi mezzo secolo dopo: ricordi e precisazioni sul caso Bozano, nella foto Franco Manzitti
La tragedia di Milena Sutter commuove i genovesi mezzo secolo dopo: ricordi e precisazioni sul caso Bozano – blitz quotidiano.it (Franco Manzitti nella foto da Primocanale)

Noi, come redazione genovese dell’Ansa seguivamo la vicenda con particolare attenzione. Era nel territorio di nostra competenza, attingevamo notizie in Procura e in Questura, avevamo nell’avvocato Gustavo Gamalero, legale di Sutter una fonte inesauribile quanto attendibile e in più io avevo conosciuto la sorella di Bozano, Marzia, bella quanto brava e perbene, al Cantagiro del 1969 (lavorava per la Hertz).

Quando Repetto mi riferì di quel discorso di Bozano non ebbi dubbi e in dialetto genovese dissi a Aldo: “Vai subito da Angiulin e diglielo”. E così Repetto fece. Angiulin era Angelo Costa, capo della squadra mobile, unico poliziotto genovese in una Questura di meridionali, unico ex partigiano in mezzo a tanti ex Ovra. Parlava in dialetto è poi traduceva per i suoi vice. Andò in pensione anticipata nel 1972 con la infame legge dei 7 anni.

Al processo Bozano, l’unico testimone di quella cena fu Tito Manes, il più buono e spendibile. Il suo nome emerge dalla cronaca che redassi per la Stampa di Torino dì cui ero corrispondente e di cui ho recuperato un ampio estratto che vi propongo qui sotto.

“Lorenzo Bozano ha rapito e ucciso Milena Sutter: ci sono le prove”, afferma il pubblico ministero Nicola Marvulli (futuro presidente della Corte di Cassazione 30 anni dopo) che oggi ha consegnato la sua requisitoria scritta al giudice istruttore Bruno Noli. Sarà il giudice, infatti, a decidere se accogliere la richiesta del p. m. che Bozano sia rinviato al giudizio della corte d’assise per rispondere di omicidio, sequestro di persona, occultamento di cadavere e atti di libidine e tentativo di violenza su alcune ragazzine.

In tutto sono nove i capi di imputazione contestati dalla pubblica accusa al Bozano.

La requisitoria del dottor Marvulli è il primo atto ufficiale della pubblica accusa in cui siano elencati tutti gli elementi raccolti contro Lorenzo Bozano e venga tentala una ricostruzione del delitto. Seguiamola, con le parole del i magistrato. Lorenzo Bozano, 26 anni, rampollo irrequieto di una famiglia un tempo benestante e imparentata con i migliori nomi di Genova, viveva da anni fuori casa: squattrinato, senza un’occupazione, aveva bisogno di soldi.

Il sequestro di Sergio Gadolla l’aveva impressionato. L’B marzo dell’anno scorso, quando ancora i rapitori del golden boy genovese non erano stati scoperti, confidò all’amico Tito Manes: «Per me bisogna prenderne uno, ammazzarlo e tenersi i soldi, sicuri di non essere trovati».

Cosi, dice il p.m., nacque l’idea: scelse la vittima nella figlia tredicenne di Arturo Sutter, Milena. Il padre, industriale della cera e del lucido da scarpe, di origine svizzera, ma nato a Genova, avrebbe certamente potuto pagare un forte riscatto. Per due mesi segui ogni mossa della ragazza, appostandosi vicino a casa, in viale Mosto, nella zona di Albaro. e davanti alla scuola «svizzera» che Milena frequentava.

Milena però era sempre con le compagne di classe, andava e tornava col «pulmino» della scuola. L’occasione venne la sera del 6 maggio 1971: la ragazza doveva essere a casa alle 17,30 per una lezione di latino. Uscita alle 17 da scuola, aveva fretta e, dice il p.m , «dev’essere stuta la sua fretta la cattiva consigliera». Abituata a vedere Bozano davanti alla scuola, forse era convinta che fosse il «ragazzo» di qualche studentessa più grande. Questo volto non le era del tutto sconosciuto, come non lo era a tutte o quasi le ragazze della scuola», nota il Pm, può auindi essere caduta facilmente nel tranello, tonto più che il Bozano si presentava bene, come un giornalista. Sull’auto infatti aveva il bollo che autorizza ad entrare in Fiera e che viene distribuito senza eccessivi controlli).

Quel che accadde dopo non si può immaginare. Restano tre punti fermi, secondo il p.m.: il delitto, come ha accertato il medico legale, fu commesso nel giro di un’ora, Milena mori strangolata e soffocata ad un tempo; fu uccisa sull’auto del Bozano, come dimostrano le macchie d’urina sul sedile. Dove si trovasse la vettura, in quel momento, non si sa: forse sulle pendici di Monte Fasce, dove, fra le 17.30 e le 19,30 Bozano e la sua auto furono visti da due ragazze, Carla Camera e Alina Tamboni. Quest’ultima vide il «biondino» sbucare sulla strada carrozzabile, a piedi, da un sentiero, mentre «si aggiustava i capelli e gli abiti ». La vettura era posteggiata in una Piazzola. col muso puntato verso l’esterno.

Il sentiero porta dopo duecento metri alla radura dove fu trovata la fossa scavata con piccone e pala del giardiniere di villa Bozano. Il giovane, secondo il Pm, in un primo tempo pensava di seppellire Milena ma quando vide la Tamboni (dell’altra non si accorse) cambiò idea perché poteva essere pericoloso. Così decise di affondare il cadavere in mare, dice sempre il p.m.: di notte, con il cappuccio della muta da subacqueo e la maschera, per non essere riconosciuto se qualcuno l’avesse visto, portò al largo il corpo della giovinetta, le assicurò ai flanchi la propria cintura zavorrata, col piombo.

Pur con un piano minuzioso, Bozano non ha previsto quello che era più facile prevedere: che si potessse sospettare di lui, nota Marvulli. E ancora: «Se Bozano ha lasciato troppe tracce, non i dipende dalla sua sprovvedutezza. ma solo dallo sbigottimento in cui è caduto quando si è trovato sospettato». ‘

A rovinarlo, continua il | p.m. hanno contribuito anche «la sua mania di precisione, la sua abitudine di voler puntualizzare per scritto ogni dettaglio», che gli hanno fatto «lasciare troppe tracce del suo delitto».

Bozano, avverte il p.m., non è uno stupido: anzi, ha un’intelligenza superiore alla media, ma ha il difetto di sopravvalutarsi, di credere che nessuno riesca a fargliela. E vediamo, dunque, gli indizi, prove secondo il p. m., che indicherebbero Lorenzo Bozano come colpevole. Intanto c’è il noto progetto di rapimento, scritto di pugno dal «biondino»: le alternative fra «seppellire, murare, affogare in canale Calma Fiera», il piano orario delle cose da fare (telefonare, fornire le prove, chiedere il riscatto) e una piantina della zona di Quarto dei Mille, dove forse Bozano pensava di farsi lasciare i soldi. Poi c’è il numero di telefono della scuola svizzera, scritto sul retro di un biglietto da visita: «Volevo telefonare per chiedere notizie», ha spiegato Bozano. Ma il p.m. contesta: «Sapendo che l’apparecchio dei Sutter sarebbe stato controllato, avrebbe chiamato li per dare istruzioni sul riscatto». C’è l’alibi, che non aveva e che cerca di procurarsi, chiedendo all’amico Mario Forzano di dire che erano assieme, il pomeriggio del ratto, «per semplificare le cose».

C’è la cintura da subacqueo, nuova com’era nuova quella del Bozano, con i piombi che prima erano rossi e che ora sono stati scolorati con l’acquaragia (una lattina di solvente era nel «garage» di villa Bozano).

Ci sono la maschera e il i cappuccio della muta bagnati, nascosti sempre nel «garage». Ci sono gli appunti scoperti in carcere nella federa del cuscino, scritti su un pezzo di carta igienica, con una spiegazione sulle macchie d’urina (una prostituta, sentitasi male, fece il guaio), che sembra solo una difesa precostituita. Ci sono infine gli indizi che per primi fecero sospettare del Bozano: le sue frequenti soste davanti alla scuola «svizzera» e alla casa di Milena. Lo videro in parecchi, notarono i suoi baffoni c la sua auto sgangherata, una vecchia «Giulietta spider» rossa, anche il pomeriggio della scomparsa di Milena.

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