Il nucleare è una fonte energetica in netto declino che non regge nemmeno il confronto di mercato
di GIUSEPPE ONUFRIO
Guardando l’evoluzione delle tecnologie nucleari commercialmente disponibili, è dimostrabile come si tratti di una tecnologia ferma nei paesi occidentali. Il numero di reattori avviati è crollato ormai da vent’anni e in questi ultimi decenni una minima ripresa è legata soprattutto a quelli costruiti in Cina. Data l’età media dei reattori commerciali operativi che è di 31,9 anni (marzo 2024), e lo stallo nella costruzione di nuovi reattori, la strategia dell’industria nucleare in Occidente si sta concentrando soprattutto nel prolungare la vita utile dei vecchi reattori, strategia non priva di rischi.
La quota di energia nucleare sul totale della produzione elettrica mondiale è scesa dal picco del 17% del 1996 a circa il 9,2% del 2022. Va peraltro ricordato come, nei paesi aderenti all’OCSE, gli investimenti pubblici in ricerca e sviluppo dal 2000 al 2022 siano stati di circa 102 miliardi di euro alle tecnologie di fissione e fusione nucleare, mentre a tutte le rinnovabili nello stesso periodo siano andati circa 62 miliardi (Fonte: elaborazione da IEA).
I costi del nuovo nucleare commercialmente disponibile
Le enormi difficoltà che hanno incontrato i due principali paesi occidentali che posseggono la tecnologia nucleare, Francia e Stati Uniti, hanno un riscontro anche nelle proiezioni dei costi delle tecnologie oggi commercialmente disponibili. Va ricordato che sia l’azienda proprietaria della tecnologia francese, Areva, sia quella nippo-americana, la Toshiba-Westinghouse, sono fallite, rispettivamente nel 2016 e 2017, per i costi associati alla costruzione delle loro prime centrali di generazione III+: l’EPR in Finlandia, e l’AP-1000 negli USA.
La banca d’affari Lazard pubblica delle stime dei costi industriali attualizzati dell’elettricità dei futuri impianti per le diverse tecnologie che sono un riferimento per gli investitori. Come si vede nella tabella in Figura 1, tratta dal rapporto del 2023, il costo minimo stimato per le tecnologie nucleari (stimati in 141 $/MWh) è maggiore dei costi massimi sia per i sistemi solari fotovoltaici associati a batterie industriali, come per quelli eolici sia a terra che a mare accoppiati a batterie industriali.
Al di là delle stime, il “Contratto per differenza” relativo all’EPR in costruzione a Hinkley Point nel Regno Unito (UK) –con cui la francese EDF si è impegnata alla realizzazione dei due reattori EPR – prevede un prezzo garantito per 35 anni per la futura elettricità del reattore. Il prezzo attualizzato al 2023 era di 124 £/MWh (ca 145 €/MWh), il doppio rispetto all’eolico offshore in UK. Questo meccanismo comunque non coprirà i maggior costi già accumulati dal progetto, che per il 60% dovranno essere coperti da EDF. Questo elemento, il maggior costo dell’elettricità prodotta dai nuovi impianti nucleari, è importante per la produzione di idrogeno (H2) a basso contenuto di CO2. Il costo industriale dell’H2 dipende da due fattori: il costo degli elettrolizzatori e il costo dell’elettricità. Un mix di solare ed eolico sarà a minor costo rispetto alla discesa dei costi del fotovoltaico, consentiranno alle tecnologie rinnovabili “intermittenti” di poter erogare elettricità a costi contenuti con continuità.
L’EPR-1 è stato di fatto un fallimento: la Francia riprova con l’EPR-2
Il progetto dell’EPR, originariamente una iniziativa industriale franco-tedesca (Framatome e Siemens), era stato lanciato nel 1991. Trent’anni dopo è fallito sul piano economico e presenta criticità tecnologiche, come è emerso nel caso dell’incidente alla centrale EPR in Cina di Taishan. Per ridurne i costi l’azienda EDF ha sviluppato una variante più semplice il progetto dell’EPR-2 e ha previsto la costruzione di sei reattori in Francia mentre l’unico EPR in costruzione a Flamanville non è ancora andato in linea. Stimato in tre miliardi di euro nel 2004, l’EPR di Flamanville avrebbe dovuto entrare in servizio nel 2012, ma ripetute difficoltà hanno portato a ritardi e costi aggiuntivi: 13,2 mld€ cui si aggiungono oneri finanziari per un totale di 19 mld€.
Non è semplice valutare i tempi di costruzione ed i costi dell’energia per gli EPR-2, dato che non esistono ancora e, la storia insegna, i costi finali dei progetti in campo nucleare sono sempre stati superiori e di molto a quelli dei progetti iniziali, cosa evidente sia per l’EPR sia per l’AP1000.
Un’analisi critica delle stime dell’EDF sull’EPR-2 di Greenpeace Francia riporta un costo stimato dell’elettricità futura tra i 135 e i 176€/MWh, un valore ben più alto dei 70 €/MWh presentati da EDF e più allineato con le stime di Lazard. Il settore nucleare francese è in forte crisi: i reattori esistenti vanno invecchiando e molti di questi presentano seri problemi di corrosione con conseguenti fermi impianto e riduzione della produzione, mentre la nuova tecnologia commerciale, non è mai decollata. La spinta francese al nucleare è legata sia al peso dell’industria nucleare civile, che cerca di mantenere il suo ruolo predominante nella produzione di elettricità sia a quello degli interessi militari, come apertamente dichiarato dal Presidente Macron per la strategia francese: «senza nucleare civile niente nucleare militare, senza nucleare militare niente nucleare civile». Anche la forte spinta al nucleare in UK ha un’origine militare, e cioè la Royal Navy, come dimostrato dalle ricerche dell’Università del Sussex. Per le potenze nucleari mantenere l’industria civile è essenziale per l’autonomia tecnologica e del ciclo del combustibile per i sottomarini e portaerei a propulsione nucleare.
Small Nuclear Reactors: una chimera da decenni e la questione scorie nucleari
Se i costi del nucleare oggi commercialmente disponibile sono molto alti, la proposta di fare piccoli reattori modulari (SMR) per tagliare i costi – producendoli in serie – è un’opzione a oggi del tutto indimostrata. Si tratterebbe di reattori più piccoli – generalmente si fa riferimento a taglie fino a 300 MW – e nella gran parte dei casi con tecnologia esistente. Dunque, per produrre la stessa quantità di energia di un EPR (1650 MW) bisognerebbe costruirne sei se non di più. E ci vorrebbero dunque sei procedure autorizzative e sei siti. In esercizio al momento solo tre impianti, di cui uno senza produzione di elettricità e si tratta di una linea di sviluppo già avviata nel secolo scorso. Un’analisi di quanti SMR occorrerebbero per diventare economicamente competitivi con il nucleare convenzionale, è dell’ordine di “almeno diverse centinaia se non qualche migliaio”. Oggi abbiamo nel mondo 415 reattori commerciali in funzione.
Inoltre, la principale startup americana impegnata nello sviluppo degli SMR, non solo non è riuscita in 16 anni a costruire il primo prototipo, ma ha abbandonato il progetto e lo scorso novembre è stata chiamata in causa con una class action dagli investitori per dichiarazioni sociali false. Peraltro, il progetto generale non ha ancora superato l’analisi di sicurezza del regolatore nucleare statunitense.
L’Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati Uniti ha analizzato le diverse tipologie di SMR proposti e ha concluso che, in termini di produzione di rifiuti nucleari, i piccoli reattori ne produrrebbero da almeno il doppio a 30 volte. Alle stesse conclusioni è arrivato un rapporto commissionato dall’Agenzia federale tedesca per la gestione dei rifiuti nucleari (BASE) secondo cui i possibili vantaggi di riduzione dei SMR – anche quelli di IV generazione – dei rifiuti ad alta attività si tradurrebbero in un aumento del volume di rifiuti a basse e media attività, mentre per portare la sicurezza dei progetti di SMR ai livelli dei reattori commerciali sono necessari molti investimenti in R&S.
Il nucleare di IV generazione
Una breve storia delle diverse tecnologie del programma nucleare sulla Generation IV, lanciato nell’anno 2000, mostra come nessuna delle filiere su cui si è lavorato per vent’anni abbia raggiunto la maturità industriale. Fanno eccezione al momento i due primi reattori cinesi ad alta temperatura e raffreddati a gas a pebble bed (HTR-PM), ed entrati in operazione all’inizio del 2022. I reattori raffreddati a piombo-bismuto di cui si parla in Italia, oltre alla relativa scarsità del bismuto presentano problemi irrisolti:
- il piombo e il piombo-bismuto, essendo molto densi, aumentano il peso della struttura, richiedono quindi maggiore supporto strutturale e protezione sismica, che aumentano i costi dell’impianto;
- mentre il piombo è abbondante e a buon mercato, il bismuto è raro e costoso e un LFR richiederà centinaia di tonnellate di bismuto;
- la soluzione piombo-bismuto è solida solo sotto 123,5 °C, va quindi riscaldata dall’esterno ogni volta che il reattore è fermato, perché solidificandosi può danneggiare il sistema;
- la soluzione piombo-bismuto produce una considerevole quantità di polonio, un elemento altamente radioattivo e molto mobile: ciò può complicare la manutenzione e porre problemi di contaminazione dell’impianto.
Fusione nucleare
Il progetto tecnologicamente e scientificamente più rilevante a livello globale è quello di Iter, il reattore sperimentale in costruzione in Francia, cui partecipa anche l’Italia in un’ampia cooperazione internazionale. Il progetto prevedeva inizialmente che la sperimentazione della fusione sarebbe stata effettuata dal 2025 per un decennio – ma è già stato annunciato un sostanzioso ritardo – periodo di test dopo il quale iniziare a progettarne il prototipo industriale.
La sua possibile commercializzazione, secondo l’ex direttore di Iter Bernard Bigot scomparso nel 2022, non sarà disponibile prima del 2060.
Le reazioni di fusione su cui si lavora sono quelle Deuterio-Trizio, due isotopi dell’idrogeno. Se il primo elemento lo si può estrarre dal mare, il secondo – radioattivo con tempi di dimezzamento di una dozzina d’anni – non esiste in natura, se non in tracce, e viene prodotto solo nei reattori nucleari ad acqua pesante (CANDU). Questi nel mondo sono una ventina e di circa la metà è prevista in dismissione nei prossimi dieci anni.
La questione dell’effettiva disponibilità del Trizio come combustibile per la fusione è estremamente critica, come ha notato Daniel Clery sulla prestigiosa rivista Science. Le quantità di Trizio attualmente disponibili ammontano a poche decine di kg nel mondo, sufficienti appena agli esperimenti di ITER. I fautori della fusione pensano di poter produrre il Trizio a partire da un isotopo del Litio ma che questa opzione sia fattibile è messo in discussione da alcuni ricercatori.
L’Ad dell’ENI Claudio Descalzi, dopo gli esperimenti del progetto del Commonwealth Fusion Systems (CFS) uno spin off del MIT, affermava che «si è testato il confinamento magnetico». Su questa interpretazione del significato dell’esperimento non è d’accordo il fisico Giuseppe Cima per il quale «l’esperimento in questione è stato invece un test di elettrotecnica, la prova di un prototipo di una bobina isolata, un dettaglio che in altri tempi la stampa avrebbe ignorato perché praticamente irrilevante per la fattibilità di un reattore a fusione».
Peraltro, è assai discutibile che la fusione sia “pulita”: a parità di energia prodotta, infatti, rilascia molti più neutroni, i quali sin da subito renderanno le centinaia di migliaia di tonnellate di metallo dell’impianto radioattive, anche se con tempi di dimezzamento inferiori rispetto ai rifiuti nucleari da fissione.
Altri due progetti della “scienza ufficiale” hanno registrato qualche passo avanti. Il JET, inaugurato nel 1984, ha di recente raddoppiato la potenza di fusione già ottenuta nel 1997. Invece l’esperimento del Lawrence Livermore Laboratory, basato invece sulla tecnologia laser, per la prima volta ha ottenuto una reazione di fusione che ha prodotto – per una frazione di secondo – più energia di quella assorbita dalla capsula contenente Deuterio e Trizio (ma circa un centesimo di quella consumata dai 192 laser). Un esperimento scientificamente rilevante, le cui applicazioni dirette riguardano però l’ambito militare per simulare test atomici; per le eventuali applicazioni di questa tecnologia alla produzione di energia ci vorranno molti decenni, come ha dichiarato Bon Rosner, già direttore dell’Argonne National Laboratory.
Il nucleare come obiettivo militare: la centrale di Zaporizhzhya
L’invasione russa dell’Ucraina ha evidenziato, per la prima volta in modo così evidente, uno degli altri rischi legati a questa tecnologia e cioè il suo essere un obiettivo militare. Le operazioni militari russe attorno alla centrale di Zaporizhzhya, la più grande in Europa con sei reattori, il sequestro del personale ucraino della centrale e le continue interferenze sulle operazioni di gestione degli impianti, la ripetuta distruzione delle linee elettriche che alimentano la centrale, la distruzione della diga Nova Kakhovka a giugno 2023, sono eventi che hanno trasformato la centrale nucleare in un obiettivo militare e una minaccia. Greenpeace Germania ha commissionato un rapporto all’agenzia di Intelligence McKenzie che, con l’analisi satellitare, ha dimostrato come la Russia abbia usato e utilizzi l’area della centrale come piattaforma di lancio dei suoi attacchi missilistici e di artiglieria, piattaforma che le forze ucraine non possono colpire.
Sul potenziale rischio che la centrale sia coinvolta dal conflitto militare, Greenpeace aveva presentato, sin dall’inizio del conflitto in Ucraina, un’analisi preliminare dei potenziali rilasci di radioattività di un ipotetico incidente la cui dinamica più probabile è simile a quella di Fukushima e cioè legata alla mancanza di elettricità per raffreddare i reattori.
Questa rassegna delle questioni legate alle tecnologie nucleari mostra la totale inattendibilità di un ruolo significativo di questa fonte energetica nella transizione. Nessuna delle tecnologie nucleari è pulita e tantomeno economica, continuano a presentare rischi ed è una falsa soluzione per la transizione energetica. L’evoluzione nel settore delle rinnovabili e degli accumuli consente già oggi una transizione verso le emissioni zero a costi inferiori e tempi rapidi, cosa impossibile con il nucleare.
*Direttore Greenpeace Italia
Questo articolo è tratto dal numero di giugno-luglio 2024 di QualEnergia
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