Michele Riondino al Lucca Film Festival ripercorre la sua carriera, tra lacrime ed emozioni

Può un horror non spaventare lo spettatore con ombre, grida e rumori sinistri, ma con qualcosa di molto più vicino: il dolore umano? Proprio da questo genere di horror è iniziata la Masterclass di Michele Riondino di domenica 21 settembre. L’evento era parte del Lucca Film Festival, a cui l’attore ha partecipato per presentare la pellicola La valle dei sorrisi (2025), continuando il viaggio promozionale dopo i festival di Toronto e la Mostra del cinema di Venezia. Un Horror, dicevamo, che si svincola da molti tratti caratteristici del genere e che è stato definito dallo stesso regista come un “film sull’importanza del dolore nelle nostre vite”.

La valle dei sorrisi, un horror concreto e reale

Copertina del film La valle dei sorrisi (2025)
Copertina del film La valle dei sorrisi (2025) © Fandango

La Valle dei sorrisi è, si, un horror, ma non risponde alle richiamate scene di paura, o ad uno spettatore incapace di provare empatia per le assurde scelte del protagonista. Lo stesso Michele Riondino, parlando del regista, ne mette in risalto la capacità di raccontare storie concrete, reali, vicine allo spettatore, favorendo il coinvolgimento emotivo verso i protagonisti. Una pellicola che affronta temi attuali, che ci toccano, in modo diretto o meno. Tratta il tema della genitorialità, con il protagonista Sergio Rossetti (Michele Riondino), travolto e tormentato dal grave lutto del figlio e alla ricerca di sollievo in questa nuova realtà. Esamina l’incrollabile fede religiosa, catalizzatrice di tutti i mali del piccolo paese, attraverso il giovane Matteo Corbin (Giulio Feltri). Una comunità che vive questa quiete bizzarra, assurda ma anche artefatta, quasi volesse metaforicamente chiamare in causa, come suggerito dall’attore tarantino, la fittizia vita che viviamo sui social.

L’Accademia e le scelte della vita

Michele Riondino e il regista Paolo Strippoli sul set de La valle dei sorrisi (2025)
Michele Riondino e il regista Paolo Strippoli sul set de La valle dei sorrisi (2025) © Fandango

Michele Riondino, prendendo parte a La valle dei sorrisi, dichiara di essere stato istruito dal regista per entrare in tutte le dinamiche che il cinema di genere richiede. Si è addentrato in quella tipica dimensione dell’horror, che definisce “sospensione dell’incredulità”. Sente, dunque, di volere questa formazione, questo sperimentare generi per apprendere nuove competenze. E la sua formazione è lo step successivo di questa Masterclass. Un percorso didattico, il suo, di stampo teatrale e classico. Proprio negli anni di formazione all’Accademia d’arte drammatica di Roma si è chiesto che tipo di attore volesse diventare e grazie al teatro romano di inizio millennio capì di volersi allontanare da quell’attore classico richiesto all’Accademia. Aveva capito cosa non voleva essere, “il resto venne dopo, con le scelte della vita”. Le famose sliding doors, decisioni che possono aprire scenari opposti, si presentarono al Michele Riondino ventiduenne: partire per l’estero per ulteriori seminari, laboratori o iniziare a lavorare qui in Italia? Fu la a seconda opzione a prevalere, guidandolo ai primi anni di gavetta con la partecipazione in fiction televisive.

Dalla serialità al cinema

Michele Riondino in Il giovane Montalbano (2012)
Michele Riondino in Il giovane Montalbano (2012) © Palomar

E se il percorso accademico ne ha segnato le basi, la serialità televisiva è stata la sua vera palestra professionale. Michele Riondino, infatti, emerge come un attore capace di reinventarsi, capace di non fossilizzarsi in un ruolo o in un tipo di prodotto. Raggiunge il successo con le fiction e vede esplodere la fama con un personaggio a dir poco ingombrante come il commissario Montalbano. Ha fatto propria la strada della serialità ma nonostante ciò il suo percorso cinematografico, come attore prima e come regista poi, non sembra averne risentito. Lui stesso riconosce i dubbi e un certo snobismo iniziali nell’intraprendere questo percorso, per il timore di trovarsi la via del cinema sbarrata. Al tempo stesso però rivendica quel “talento dell’attesa” nel rientrare nel circuito cinematografico dopo l’esperienza con Camilleri. Difatti, non rinnega la figura di Montalbano, soprattutto in virtù della collaborazione e dell’amicizia che ne è nata con il suo autore.

Cinema d’autore e mainstream, una divisione necessaria?

Michele Riondino in I leoni di Sicilia (2023)
Michele Riondino in I leoni di Sicilia (2023) © Compagnia Leone Cinematografica e Lotus Production

Michele Riondino, dunque, si è dimostrato capace di cavalcare l’onda televisiva senza conseguenze sul ritorno in quella cinematografica. Un “eroe dei due mondi” che poi, si conferma tale anche all’interno del cinema stesso. Dopo la separazione tra televisione e cinema, si chiede se un ulteriore separazione sia necessaria all’interno di quest’ultimo: quella tra cinema d’autore e mainstream. L’attore si dice desideroso di un connubio tra queste due branche del cinema, facendo così diventare dominante, o quantomeno popolare, anche il cinema d’essai. Ricorda, infatti, anche la tradizione del cinema italiano, con opere che traducono il mondo, toccano la quotidianità divenendo così prodotto popolare, vedi Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972). Una divisione, dunque, inutile e favorita da un atteggiamento snob, che l’attore vuole accantonare tornando a “fidarsi del pubblico” e garantendo loro la realtà. Si dice, infatti, stacco dei film che offrono “bellissime fotografie del mondo senza mettere sul tavolo delle belle storie”.

L’esordio alla regia: Palazzina Laf

Michele Riondino e Elio Germano in Palazzina Laf (2023)
Michele Riondino e Elio Germano in Palazzina Laf (2023) © Rai Cinema

La vita di Michele Riondino non si compone, però, solo di recitazione, ma anche di un forte impegno sociale e politico. Un attivismo che non poteva non volgere lo sguardo alla realtà di Taranto, suo città natale. E proprio questo lo ha spinto a varcare un nuovo confine, portandosi così dietro la macchina da presa. Palazzina Laf (2023), è stata la sua opera d’esordio alla regia, un’opera che denuncia la realtà in cui versa la sua città, ma con una prospettiva inedita. La sua intenzione, infatti, era confondere il pubblico che si aspettava la lente d’ingrandimento sull’allarme ambientale e sanitario. Ebbe addirittura l’idea di creare un falso trailer per soddisfare quest’aspettativa, per poi, invece, “restituire la complessità del problema”. Ambiente e sanità sono problemi fondamentali ma collaterali, lui voleva mostrarci quel “ricatto occupazionale”, ossia i figli obbligati a ereditare il lavoro del padre, come lui stesso avrebbe dovuto fare. Questo fu il carburante iniziale per portare questa storia sul grande schermo, con l’influenza di grandi opere come I compagni (1963) di Mario Monicelli.

Il domani, degno di essere raccontato

Masterclass di Michele Riondino al Lucca Film Festival
Masterclass di Michele Riondino al Lucca Film Festival © Luca Spitaleri per Screenworld.it

Guardando al futuro, Michele Riondino non nasconde la voglia di ritornare a teatro e di continuare a sperimentare dietro la macchina da presa. É consapevole di quanto, adesso, dopo Palazzina Laf, le aspettative siano cresciute, per questo motivo è deciso a concedersi tempo, alla ricerca di una storia degna di arrivare al grande pubblico. La Masterclass, come quella di Kevin Spacey, ha offerto un’immagine di un’artista che sfugge alle etichette, che rifiuta i confini tra serialità e cinema, tra autorialità e popolare. L’unico obiettivo resta uno: raccontare storie capaci di parlare allo spettatore in forme nuove e senza compromessi.

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