Montagne, il futuro passa per il contrasto della crisi climatica

Montagna Alpi

Gli ecosistemi montani sono tra i più fragili e più esposti al climate change. Per salvarli serve sviluppare nuove relazioni e accordi con le città

Montagne e crisi climatica. I cambiamenti climatici sono una drammatica emergenza globale ormai evidente negli effetti e nelle cause, nonché uno dei principali fattori di perdita di biodiversità. Crisi climatica e perdita di biodiversità sono infatti interdipendenti: l’aggravarsi delle condizioni di una peggiora l’altra.

Gli ecosistemi montani sono tra i più fragili e più esposti al cambiamento climatico e per questo saranno decisivi perché in questi territori, oltre alla sfida climatica, dovranno essere affrontate contestualmente le altre emergenze storiche: la crisi demografica e l’abbandono. L’aumento dei rischi naturali in montagna (dissesto, eventi estremi, incendi, riduzione del permafrost, arretramento dei ghiacciai) degradano il capitale naturale alpino e appenninico e provocano la perdita di quei servizi ecosistemici (acqua, biodiversità, legno, energia) che sono la ricchezza principale di questi territori.

Paradossalmente il climate change potrebbe essere la scusa e il grimaldello per incoraggiare l’avvio di politiche territoriali necessarie ma fin qui rimandate. La ricchezza di materie prime delle nostre montagne deve essere considerata una risorsa strategica per mitigare l’impatto del clima, perché la natura è il più potente strumento di immagazzinamento della CO2 disponibile, e per generare valore per sostenere gli insediamenti e le comunità locali grazie ai servizi ecosistemici che fornisce la montagna.

Montagne e crisi climatica: un nuovo rapporto con le città

Per attuare questa strategia non basta un riequilibrio di poteri tra le metropoli e le aree rurali ma servono nuove relazioni e accordi tra i territori di montagna e le città. Serve un patto di mutua assistenza tra chi detiene le risorse naturali (la montagna) e chi ne utilizza i servizi ecosistemici generati (la città). Un accordo per continuare a fornire alle città risorse naturali come l’acqua da bere pura e, in cambio, dotare la montagna di servizi adeguati a combattere lo spopolamento.

La montagna è stata troppe volte mal assistita e spesso le sue risorse non sono state utilizzate per invertire la curva dello spopolamento e dell’abbandono dei paesi, ma hanno generato illusioni di sviluppo troppe volte incentrato sulle infrastrutture turistiche che oggi devono fare i conti con l’impatto dei cambiamenti climatici.

Nel tempo la montagna ha conquistato notorietà ed è divenuta un attrattore di flussi turistici, ma deve liberarsi dall’idea, vecchia e devastante, di continuare a spendere per infrastrutture e impianti scioviari alla luce dei cambiamenti climatici e della conseguente riduzione delle precipitazioni nevose. La montagna deve affrancarsi dal modello turistico in voga e uscire dall’offerta mainstream che considera la presenza degli impianti di risalita come l’unica possibilità turistica per questi territori, con il rischio che passi l’idea che senza neve sulle montagne il turismo montano muore. Sarebbe un clamoroso autogol che non lascia spazio a soluzioni alternative.

Gli aiuti per i territori di margine

Le comunità di montagna hanno bisogno delle giuste attenzioni e di aiuti mirati. Aiuti e investimenti per il mantenimento del paesaggio e degli alpeggi tradizionali, il ripristino dei pascoli abbandonati e dei prati stabili per favorire l’allevamento brado e la transumanza, per favorire la gestione forestale sostenibile delle risorse e delle filiere boschive.

Alle imprese servono risorse dirette e su misura per chi opera in territori spesso gravati da vincoli e regole complesse. In questi territori, aziende e operatori devono ricevere finanziamenti appropriati e, in cambio delle sovvenzioni ricevute, garantire produzioni sostenibili che riducano le emissioni e garantiscano la neutralità climatica dei territori.

Servono più strategie orizzontali condivise e rapide, e non ricette trasferite da verticalizzazioni elaborate nei pensatoi che non trovano interpreti e competenze adeguate nei territori: fin quando si elabora e si finanzia il progetto molte persone competenti magari sono andate via.

Nelle terre alte bisogna favorire il neo popolamento di chi cerca luoghi salubri e vivibili, ma soprattutto dei nuovi italiani che credono nella loro accoglienza nelle piccole comunità locali. In queste aree, dove c’è bisogno di forze attive per produrre o assistere le persone, dove mancano bambini per rianimare luoghi troppo silenziosi, bisogna puntare sull’accoglienza e l’integrazione.

Nei territori del margine servono percorsi condivisi e persone che desiderano il cambiamento, ma bisogna ascoltare di più e aiutare le comunità a credere nel Green deal europeo e nella possibilità di attuare la transizione ecologica a loro vantaggio. Occorre utilizzare la programmazione e le risorse disponibili a misura di territorio, magari con poche e mirate azioni sul modello delle green communities e condivise con i territori. Aiutiamo però i territori a individuare i bisogni veri e a valorizzare i talenti e le vocazioni locali, selezionando gli obiettivi sulla reale capacità di realizzazione attraverso un processo partecipato che elabori una visione di comunità che si deve trasformare in progetto di sviluppo locale.

A questo devono servire l’assistenza tecnica e il trasferimento di buone pratiche sapendo però che senza competenze in loco i progetti non avranno gambe solide per camminare e trasformare il desiderio in cambiamento.

Per approfondire
Uncem presenta il “Rapporto Montagne Italia 2025”