Pochi italiani e pochi soldi: il calcio come specchio del nostro Paese in declino

È dal 2006 (salvo qualche rara parentesi, tra cui l’incredibile Europeo vinto da Roberto Mancini) che fare il commissario tecnico della Nazionale italiana significa farsi il segno della croce e sperare che, tra un rimpallo e l’altro, la squadra non venga asfaltata dall’avversario di turno. Dal 2006 abbiamo avuto Roberto Donadoni, il ritorno di Marcello Lippi, Cesare Prandelli, Antonio Conte e poi l’ulteriore declino con Gian Piero Ventura, la parentesi felice di Roberto Mancini (almeno fino all’Europeo vinto), e infine Luciano Spalletti e Gennaro Gattuso. Di allenatori potremmo cambiarne anche 107, anche 210; potremmo persino provare l’opzione “papa straniero” o il televoto da casa. Ma finché non cambieremo strutturalmente il nostro calcio, sarà difficile vedere un vero miglioramento. Finché nel nostro campionato non si darà più spazio ai giocatori italiani e finché nei settori giovanili non si valorizzerà di più il talento, il calcio continuerà a rispecchiare il lato peggiore della nostra società: un’Italia sempre meno giovane, con meno figli, più individualista, più attenta ai social che alla realtà, sempre più arrabbiata e in declino economico.

Oppure — salvo imprevedibili exploit come l’Europeo vinto da Mancini — possiamo continuare così, sperando di trovare qualche mago del pallone in giro per il mondo, prima o poi. Fino al prossimo Mondiale, guardato da casa. Nel frattempo, non resta che pregare per qualche rimpallo favorevole in vista dei prossimi spareggi. Amen.

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