Strano ma vero, le faggete erano in pianura

faggeta

La distribuzione potenziale del faggio si è ridotta di circa il 48% e la specie si è progressivamente spostata verso l’alto di circa 200 metri negli ultimi quattromila anni. Lo studio 

di LUCIANO BOSSO

Il faggio (Fagus sylvatica) è una specie arborea forestale che vive sopra gli 800 metri. Ma non è sempre stato così. Un articolo pubblicato su Science of the total environment da una collaborazione tra ricercatori, guidata dall’Università di Napoli, mostra come il faggio occupasse, in passato, una superficie molto più estesa rispetto a quella attuale. Lo spostamento di questa specie verso altitudini più elevate e la sua scomparsa dalle zone di pianura al di sotto dei 300 metri di quota sarebbero dovuti alla combinazione di diversi fattori, come l’attività antropica e i cambiamenti climatici. 

Allo stato attuale è presente in Italia principalmente nella fascia altitudinale compresa tra gli 800 e i 2.000 metri sopra il livello del mare, dove forma soprattutto boschi puri. Piccoli nuclei e individui isolati possono essere rinvenuti però anche a quote inferiori ai 200 metri s.l.m. La sua presenza in alta quota è da sempre stata spiegata, da ecologi e botanici, dal fatto che ci potessero essere dei limiti imposti dalle condizioni climatiche (per esempio scarse precipitazioni ed elevate temperature). Tuttavia, in una parte della comunità scientifica si era fatta strada già da tempo l’idea che in passato il faggio occupasse una fascia altitudinale ben più ampia, grazie a diverse osservazioni a bassa quota fatte da esperti e grazie a ricostruzioni di antichi ambienti forestali basate su dati storici.  

I risultati dell’ultima analisi spiegano che l’effetto combinato dell’attività umana e dei cambiamenti climatici ha fortemente influenzato la scomparsa del faggio nei boschi italiani negli ultimi 4.000 anni, soprattutto nelle fasce poste a bassa quota. In particolare, la distribuzione potenziale del faggio si è ridotta di circa il 48% e la specie si è progressivamente spostata verso l’alto di circa 200 metri. Secondo i risultati ottenuti, il cambiamento climatico ha avuto maggiore impatto su tutto l’intervallo altimetrico, dal livello del mare a oltre i 900 m, mentre l’impatto antropico ha avuto effetti rilevanti soprattutto a quote comprese tra 0 e 50 metri s.l.m. Lo studio appena pubblicato costituisce uno dei primi tentativi di impiegare un approccio multidisciplinare per interpretare la storia del faggio e quantificare gli impatti dei fattori esterni. 

Per l’analisi gli autori hanno recuperato dati archeobotanici – identificazioni di materiali botanici provenienti da siti archeologici posti a quote inferiori a 600 metri che attestano la presenza del faggio negli ultimi 4.000 anni – per poi incrociarli con avanzate metodologie di Gis e di modellistica ecologica. Hanno così potuto ricostruire, almeno potenzialmente, l’antica distribuzione delle faggete. Sono state quindi realizzate delle mappe di presenza/assenza di faggio, nel passato e in epoche recenti. Dopo averle confrontate, i ricercatori hanno mostrato le differenze tra le due distribuzioni e come le variabili climatiche e antropiche abbiano influito sulla scomparsa della specie. Invece di individuare il clima come singolo fattore naturale, lo spostamento del faggio a quote più alte può essere spiegato in maniera più convincente ipotizzando l’azione sinergica di diversi fattori. I risultati di questo approccio metodologico originale e innovativo, che ha visto interagire archeobotanici, esperti di analisi spaziale ed ecologi forestali, hanno permesso di raggiungere conoscenze di grande importanza per comprendere meglio le complicate interazioni “clima-pianta-essere umano”.  

Studi come questo, che possono essere applicati anche ad altre specie o a intere comunità forestali, forniscono dati preziosi per orientare correttamente le future politiche di gestione del patrimonio forestale italiano, contribuendo allo stesso tempo alla sua conservazione anche in termini di biodiversità. I risultati apparentemente sorprendenti ricevono peraltro continue conferme dalle osservazioni di campo effettuate in diversi siti dell’Italia peninsulare, dove in seguito all’abbandono dei boschi da parte dell’uomo si sta assistendo al progressivo ingresso – ma sarebbe più corretto parlare di “ritorno” – del faggio a quote inferiori agli 800 metri s.l.m. Questo processo di ricolonizzazione è garantito proprio dalla presenza di individui maturi, che anche se isolati mostrano ottime capacità di produzione di semi.