SALARIO MINIMO/ Cosa succede ai lavoratori autonomi con la proposta delle opposizioni?

La proposta di legge sul salario (pdl) minimo presentata in Parlamento dai partiti dell’opposizione mira a rimuovere o ridurre il rischio di povertà cui sono esposti molti lavoratori. Il fenomeno è reale e riconosciuto dallo stesso Governo.

Chi sono, però, questi lavoratori, secondo la proposta di legge? Sono soltanto i prestatori di lavoro subordinato o anche i lavoratori autonomi? E in tal caso, quali, tenuto conto della complessa articolazione di questo settore?

La risposta ai quesiti è offerta dall’art. 1, commi 2 e 3, pdl ed è nel senso di ricomprendere i lavoratori autonomi nel loro complesso: sia i collaboratori eterorganizzati, ai sensi dell’art. 2, d.lgs. n. 81/2015, sia coloro che “prestano la propria attività lavorativa in forza di un contratto di agenzia o di rappresentanza commerciale o di un contratto di collaborazione che si concreti in una prestazione di opera coordinata e continuativa, prevalentemente personale, a carattere non subordinato, o effettuino prestazioni d’opera intellettuale o manuale di cui all’articolo 2222 del codice civile” (art. 1, comma 3).

Se questo è chiaro, non altrettanto è se a tutte queste categorie sia applicabile la “retribuzione complessiva sufficiente e proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato”, comprensiva del “famoso” minimo orario di 9 euro. Questa, infatti, è individuata dall’art. 2, richiamando il “trattamento economico complessivo […] previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro […] stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale” del settore in cui il datore di lavoro svolge effettivamente la sua attività, comprensivo del suddetto minimo orario.

Tale formula, riferita ai Ccnl dei lavoratori subordinati, vale anche per i lavoratori eterorganizzati, fatta eccezione per le collaborazioni inerenti attività proprie delle professioni che richiedano l’iscrizione agli albi, per le attività dei componenti gli organi di amministrazione e controllo delle società e dei partecipanti a collegi e commissioni (art. 1, comma 2): l’eccezione non si estende alle altre ipotesi contemplate dall’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 81/2015, che ricadono nell’ambito di applicazione della regola sopra indicata, non senza qualche perplessità sulla ragionevolezza della soluzione.

Alle altre categorie di lavoratori autonomi prima richiamate, invece, l’art. 1, comma 3, pdl, attribuisce il diverso diritto a “un compenso proporzionato al risultato ottenuto, avuto riguardo al tempo normalmente necessario per conseguirlo”.

A definirlo, per gli agenti e rappresentanti di commercio e i collaboratori coordinati e continuativi, dovrebbero essere gli accordi collettivi nazionali per i quali, diversamente dai Ccnl dei lavoratori subordinati, non è espressamente richiesto il rispetto del minimo orario. Simili accordi esistono per gli agenti e rappresentanti di commercio, ma sono (pressoché) inesistenti per le co.co.co. E in loro mancanza “la retribuzione dovuta non può essere complessivamente inferiore a quella stabilita dal Ccnl che disciplina, nel medesimo settore, mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati, avuto riguardo al tempo normalmente necessario per fornire la stessa prestazione”.

E un analogo riferimento è poi introdotto nell’art. 2225 c.c. per determinare il corrispettivo minimo dovuto alle altre prestazioni d’opera.

In tal modo, il rispetto del trattamento minimo orario rientra in gioco, in termini eventuali nel primo caso, necessari nel secondo.

L’effetto sostanziale, dunque, è la riduzione e assimilazione al lavoro subordinato di forme di lavoro differenti di fatto e di diritto, come pure sembra riconoscere in principio il pdl.

È davvero la strada giusta?

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