
Il congresso del 2003 è una tappa importante per Legambiente. Si concludeva la “formazione”. E ci chiedevamo se saremmo stati capaci di crescere ancora
Il congresso del 2003, a Roma, dentro uno dei tre “gusci” del Parco della musica progettato da Renzo Piano e inaugurato l’anno prima, rappresenta una tappa importante nel “curriculum” di Legambiente. Si concludeva per noi – per me, Francesco Ferrante e tante e tanti altri – il ciclo della “formazione”, che sotto la guida di Ermete (Realacci, ndr) ci aveva fatto crescere da piccolo gruppo di attivisti dell’ambiente nato all’ombra dell’Arci in associazione autonoma e svincolata da ogni collateralismo, capace di mettersi alla testa di grandi mobilitazioni nazionali, su tutte quella vittoriosa contro il nucleare, e riconosciuta come voce autorevole nel dibattito pubblico. Cito un episodio “mediatico” che simboleggia bene questa raggiunta “età adulta”: l’apertura del quotidiano Repubblica del 16 dicembre 2002 sul condono edilizio varato dal governo Berlusconi, che titolava “Insorgono Ulivo e Legambiente”.
Eravamo diventati grandi ed eravamo bravi, ma credo che tutti noi – io di sicuro che in quel congresso divenni presidente – ci chiedevamo: saremo in grado di continuare a crescere? Sapremo anche in futuro essere utili all’ambientalismo e all’Italia?
Quel congresso del 2003 fu uno spartiacque pure per il contesto di veloce cambiamento, italiano e globale, in cui si svolse. Erano gli anni in cui facevamo i conti con la nostra “fertile ambiguità”: mai direttamente in politica elettorale, ma con una grande voglia di contare politicamente. Massimo D’Alema, intervenendo otto anni prima in un altro nostro congresso, ci aveva chiesto “quante armate avete?”, e a modo suo aveva ragione. Erano gli anni in cui ci avevano da poco lasciato madri fondatrici e padri fondatori di Legambiente, pioniere e pionieri dell’ambientalismo italiano: Laura Conti e Fabrizio Giovenale su tutti.
Erano gli anni in cui cominciavano a vedersi “gli ambientalismi”, le differenze tra noi e i vari cugini. Non più “divisione del lavoro” – Wwf è protezione della natura, Italia Nostra è tutela dei beni culturali, Legambiente è lotta all’inquinamento – ma modi diversi di intendere la missione dell’ambientalismo: noi diversi dal Wwf sul modello di gestione delle aree protette, che vogliamo intrecciare allo sviluppo locale, perché i parchi italiani non sono wilderness disabitata ma luoghi d’intreccio secolare tra natura e cultura; noi diversi da Italia Nostra perché convinti che per difendere l’ambiente non basta “conservare” ma serve anche realizzare opere, impianti. Ricordo la prima polemica pubblica con Italia Nostra: noi sostenitori della nuova linea C della metropolitana a Roma, loro contrari perché cambiava l’assetto tradizionale dei luoghi (a proposito, sono passati vent’anni e la linea C è ancora a metà strada: questo è il problema).
Erano gli anni del post 11 settembre, della via stretta per coniugare lotta senza quartiere al terrore di Al Qaeda e rifiuto della logica della “guerra preventiva”, ed erano gli anni del movimento no global: una sfida anche per Legambiente, molti dei nostri pensavano che quella “roba” non ci appartenesse, invece ci siamo entrati con forza e convinzione, anche con la nostra “diversità”. E abbiamo fatto bene.
Erano gli anni di grandi vittorie concrete e mediatiche che dimostravano “il valore d’uso” della nostra azione – giù gli ecomostri: il Fuenti nel 1999, Punta Perotti nel 2006 – e di grandi sconfitte politiche – il terzo condono edilizio già ricordato.
Erano gli anni, ancora, in cui nacquero alleanze “incredibili”: con le forze dell’ordine contro le ecomafie, e da lì parte il cammino che condurrà un decennio dopo alla legge che introduce nel codice penale i crimini ambientali, e con i “riscopritori” del patriottismo – primo fra tutti il presidente Ciampi – nel nome del “Voler bene all’Italia”.
Vent’anni dopo possiamo rispondere ai nostri dubbi personali di allora che sì, Legambiente che nel 2003 diventava adulta, anche da grande sarebbe stata all’altezza del proprio compito e della propria ambizione: proporre l’ambientalismo come “nuovo umanesimo” (in questo, chiedo scusa per l’arroganza associativa, Greta Thunberg anche se non lo sa è un po’ legambientina), affermarlo non solo come cultura, sensibilità che denuncia i problemi ambientali, ma come cittadinanza attiva che contribuisce a costruire le terapie per affrontarli. Necessità che oggi è ancora più urgente di ieri davanti al precipitare della crisi climatica: per questo ci fanno così arrabbiare gli ambientalisti contro l’energia eolica e solare. Non sono parte della soluzione “ecologica”, ma del problema.
Chiudo con un ricordo e un ringraziamento. Il ricordo è per una persona che non c’è più: la mia amica Rita Tiberi, che del congresso del 2003 come di tanti altri è stata l’anima organizzativa. Legambiente è una cosa grande e bella anche per tante persone belle e grandi che l’hanno fatta vivere. Rita, tra tutte quelle che ho conosciuto, è una delle più grandi e più belle: una donna libera come poche e come poche legata al vincolo di un’appartenenza collettiva. Il ringraziamento è lo stesso che dichiarai subito dopo l’elezione a presidente. Grazie a mio padre, che allora se n’era già andato e che mi ha dato l’esempio di un’idea di bene comune che diventa lavoro quotidiano.