Ritorno al futuro

Legambiente nel 2008 in piazza per lo sciopero generale contro la riforma Gelmini

Il congresso del 2007 lanciava l’allarme: non dovevamo farci chiudere nell’angolo. Le mobilitazioni sociali sarebbero state la cifra del nostro impegno

Era fine ottobre del 2007, avevo appena chiuso il congresso di Legambiente Scuola e formazione, passando il testimone a Vanessa Pallucchi, quando ricevetti una telefonata da Roberto Della Seta. Mi informa che Veltroni gli ha proposto di entrare nella segreteria del Pd, ruolo che sarebbe stato incompatibile con il rinnovo della sua carica, per sapere se fossi disponibile ad accettare la candidatura come presidente di Legambiente, per dirmi che c’erano anche altre ipotesi e che comunque ci sarebbe stato il giusto percorso democratico interno. Mi presi due giorni per pensarci, capivo l’enormità della sfida e la generosità della proposta… Così inizia la storia della mia presidenza.

Oggi, rileggendo documenti e appunti di quel congresso, mi rendo conto che era forte la percezione che si stesse aprendo una fase nuova, nel Paese e nel mondo, che la “fase pionieristica dell’ambientalismo” fosse finita. Era esplicita la consapevolezza che “le nostre ragioni sono giganti culturali; la sfida è evitare che rimangano nani politici”. Profilo culturale ben segnato dal titolo scelto per il convegno precongressuale, “E se avessimo torto?”, che dice molto dell’ambizione di spiazzare i luoghi comuni, di uscire dalle posizioni di testimonianza, di non essere dati per scontati. Era poi forte la necessità di sviluppare sempre più il dialogo con organizzazioni e ambiti nuovi per l’ambientalismo tradizionale.

“Una grande forza spiegava allora le sue ali”, ma non era quella ricordata da Guccini, “parole che dicevano ‘gli uomini son tutti uguali’”. No, era la crisi finanziaria iniziata a luglio di quell’anno, originata dalla bolla immobiliare statunitense e dalla crisi dei subprime. L’impatto sui più fragili determinò un’accelerazione delle disuguaglianze e una conferma delle critiche all’austerity e alle misure liberiste contro welfare e politiche pubbliche che avevano animato la stagione dei Social forum mondiali. Novità drammatiche, segnate anche dalla sconfitta del centrosinistra nell’aprile 2008. Di questi scenari inediti un’associazione ambientalista poteva anche non accorgersi. Ma non Legambiente, segnata dall’ambientalismo scientifico come da quello sociale.

Eravamo pur sempre quelli che si erano inventati, nei primi anni del decennio, la campagna “Clima e povertà” e prima ancora il patto con Cgil-Cisl-Uil su ambiente e lavoro. Di questa attenzione originale quel congresso, e le scelte successive, portano molti segni.

Le sfide principali indicate dal documento congressuale sono già un segnale: i cambiamenti climatici devono conquistare l’agenda politica; la globalizzazione implica una sfida culturale, per l’incredibile accrescimento delle conoscenze, e una sfida antropologica, per l’insinuarsi di nuove paure tra chi si sente emarginato; infine, l’ambientalismo come veicolo per dare più valore all’interesse generale, contro ingiustizie e corporativismi. Nel mio intervento aggiungevo la consapevolezza che “questa è la prima generazione del dopoguerra a percepire che nel futuro starà peggio dei propri genitori”. Enfatizzando l’attenzione che dobbiamo dedicare ai cambiamenti che avvengono nella società, ponevo una domanda, forse retorica ma significativa del modello di sviluppo in cui siamo ancora immersi: “Che popolo è quello che sceglie di passare le proprie domeniche nei centri commerciali?”. Basta che sia energeticamente efficiente perché sia un luogo di socialità accettabile?

I temi di allora, rivisti oggi, appaiono una coazione a ripetere azioni dannose. La questione meridionale e quella settentrionale, il federalismo fiscale, l’edilizia davanti alle sfide dell’innovazione, il consumo di suolo, l’inaccettabile costo delle morti bianche, il modello di sviluppo basato sui bassi salari, i profughi ambientali e la giustizia climatica, lo sgretolamento del tessuto urbano e la perdita di coesione sociale, i beni comuni, la mancata prevenzione del dissesto, la caduta della qualità culturale dei territori… erano i temi all’ordine del giorno del congresso. La persistenza degli stessi nodi oggi ci dice quanto sia profonda la crisi del Paese. Piccola nota: in quei giorni a Roma divampava la polemica sulle strisce blu per i parcheggi, come oggi per limitare l’accesso al centro storico!

Dal congresso venne un’indicazione precisa, Legambiente non poteva farsi chiudere nell’angolo di un movimento virtuale: le mobilitazioni sociali, insieme al lavoro per il radicamento territoriale, sarebbero state la cifra del nostro impegno. Per questo il congresso lanciò la prima grande manifestazione contro la crisi climatica, il 7 giugno 2008 a Milano, preparata da decine di associazioni, che poi alla vigilia della Cop di Parigi del 2015 si costituiranno nella Coalizione per il clima. Ma già il 19 gennaio eravamo in piazza a Napoli per denunciare il disastro della Terra dei fuochi.

Nel 2009, il 4 aprile, partecipammo alla manifestazione della Cgil contro le politiche per il lavoro di Palazzo Chigi, che vide sfilare oltre due milioni di persone. Nel frattempo, il centrodestra al governo rimetteva in campo i vecchi armamentari: il piano casa, il ponte sullo Stretto, i rigassificatori, i mancati investimenti in prevenzione – di cui il terremoto dell’Aquila, il 6 aprile 2009, è il segno più doloroso – e ancora il nucleare, un altro déjà-vu, che fece da traino al successo nel 2010 della raccolta firme per una legge di iniziativa popolare per lo sviluppo delle rinnovabili. Il tutto fu coronato dal successo straordinario, nel giugno 2011, della battaglia referendaria contro il nucleare e per l’acqua pubblica.

Filo conduttore la voglia di cambiare, che ci porterà a scegliere per il congresso del 2011 il titolo: “Capire il futuro per cambiare il presente”, individuando tre grandi fratture del Paese con cui si sarebbe dovuto inesorabilmente misurare il cambiamento ambientale: l’estraneità della società civile nei confronti della politica, con i primi segnali di rabbia e paura, la forbice crescente tra Nord e Sud, l’esplosione delle disuguaglianze, in un mondo sempre più interdipendente e con evidenti debiti di democrazia.