Che Roberto Colaninno sia stato un “capitano coraggioso” è fuori di dubbio: e non perché lo sentenziò l’allora Premier Massimo D’Alema. L’ingegnere mantovano non fu solo un semplice frontman nella “madre di tutte le Opa”, su Telecom nel 1999. Non fu soltanto un volto posticcio creato dai poteri forti di una finanza ruggente: era la faccia di chi aveva saputo e voluto mettercela, ben consapevole di dove e come l’andava a mettere. Non andò troppo diversamente neppure quando – pochi anni dopo – si ritrovò alla testa di uno dei più ambiziosi tentativi di salvare l’Alitalia di Stato, privatizzandola per davvero. Né su Telecom, né su Alitalia Colaninno ha vinto le sue “guerre”: però sarebbe ingiusto parlare di lui come di un perdente in un obituary.
Il coraggio – nonché la vittoria in una battaglia epocale – Colannino li aveva sfoderati trasformandosi da brillante manager nella Sasib (azienda metalmeccanica del gruppo Cir) in Ceo di un’Olivetti in cerca d’autore, cioè di padrone. Avrebbe potuto limitarsi a presidiare l’allora secondo gestore mobile in Italia (Omnitel) in sintonia con Carlo De Benedetti in fase di disimpegno. Invece fu la figura catalizzatrice di un sommovimento profondo nell’Azienda-Paese.
Telecom era stata collocata in Borsa “modello Britannia” dal Governo Prodi, ma l’azionista guida – la famiglia Agnelli – non aveva investito più dello 0,6%, puntellata da un classico “nocciolo” di banche. Nonostante il blasone torinese – quello dei capofila del capitalismo privato italiano – nulla era cambiato in uno dei “campioni nazionali” ex pubblici; e nulla prometteva di cambiare. Ed è stato su questo “teatro” che Colaninno ha interpretato un ruolo multiplo e complesso. Ha fatto di Olivetti un’inusitata “newco” per un’Opa a debito in stile Wall Street, coagulando l’interesse multimiliardario in dollari della big bancarie globali.
Ha ceduto Omnitel a Vodafone, in un contesto antitrust europeo. Si è conquistato il favore del politico “outsider” che sedeva in quel momento a palazzo Chigi. Ha consentito a D’Alema di offrire garanzie alla Mediobanca di Enrico Cuccia (sotto attacco nelle due banche azioniste Comit e Banca di Roma) in cambio del buon esito dell’Opa Telecom (cui contribuirono con pacchetti decisivi sia il Tesoro di Mario Draghi che la Banca d’Italia di Antonio Fazio). Ma non da ultimo, Colaninno mise sul tavolo i “risparmi” miliardari accumulati da quella che passò alla storia come “razza padana”: un capitalismo che non fu facile definire neppure allora, ma che dimostrò di avere mezzi, iniziativa e relazioni non inferiori a quelle dell’allora “salotto buono”, ancora vitale.
Quando, un quarto di secolo dopo, Colaninno scompare, quel “salotto buono” è già scomparso da un pezzo. L’avventura di Telecom finì solo un paio d’anni dopo i fasti dell’Opa. Lo scoppio della bolla tech tagliò le gambe a una strategia che aveva fini industriali, ma che era ancora – in quella fase – pura ingegneria finanziaria. Ed era stato effimero anche l’Esecutivo D’Alema (anche se – in fondo – la “razza padana” di Colaninno & C era antropologicamente molto berlusconiana). Fu emblematico che Telecom (ri)passasse sotto il controllo di Pirelli, affiancata dai due “campioni” bancari Intesa e UniCredit (e quindi della stessa Mediobanca). Ma da allora l’interrogativo è rimasto, senza risposta. Cosa sarebbe stata, cosa sarebbe oggi Telecom (e forse l’Azienda-Paese) se il capitano Colaninno avesse compiuto la sua missione?
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